Roma – Osservando ciò che è accaduto in questi giorni a margine della presentazione del nuovo smartphone di Palm al CES di Las Vegas, ci si può rendere conto di come, ancora una volta, Apple abbia silenziosamente tracciato il percorso di sviluppo dello scenario tecnologico. Mentre ormai qualsiasi cellulare di fascia medio-alta che compare sul mercato viene definito dalla stampa come l’anti-iPhone, per una serie di similitudini progettuali talvolta ben evidenti (ed altre volte meno) che avvicinano moltissimi nuovi prodotti in uscita a quello della casa di Cupertino, ancora poco si pone l’accento su altre questioni di sostanza che le scelte commerciali di Apple determinano.
Così come avvenuto alcuni anni fa con la nascita dell’iTunes Music Store, nel quale una intelligente intuizione di Apple associava ad un prodotto hardware un grande magazzino di contenuti, una sinergia, come si è visto, in grado di mutare radicalmente le scelte sulla fruizione musicale, stiamo oggi assistendo ad un fenomeno di imitazione da parte di altre aziende nei confronti dei modelli commerciali Apple nel mercato degli smartphone. Questa rincorsa, da un lato amplia le possibilità del mercato, dall’altro rende pericolosamente asfittico lo scenario di sviluppo che risulta in buona parte concentrato in una unica direzione.
Con qualche orgoglio alla presentazione del Palm Pre, Jon Rubinstein ha annunciato qualche giorno fa che Palm renderà disponibile ai suoi utenti un ampio negozio di applicazioni nel quale scaricare software adatto al sistema operativo del proprio terminale. L’App Store di Apple a quanto pare fa scuola (anche Android seguirà il medesimo modello) e, come scrive giustamente il New York Times, nei prossimi mesi si tratterà di capire se davvero sia realistico immaginare che gli sviluppatori software decidano di dedicarsi alla produzione di software per iPhone, per Android, per Windows Mobile, per BlackBerry ed ora anche per il WebOs di Palm.
In realtà oggi il collare di diamanti che lega un device mobile al suo software è contemporaneamente qualcosa di importante e perverso. Importante perché dopo l’esempio di iPhone nessun telefono di nuova generazione sembra poter sopravvivere con i semplici software di base forniti dalla casa madre, perverso perché la frammentazione delle offerte e lo stretto collegamento fra hardware e software rischiano di essere in molti casi un onere più che un valore.
Mentre sui computer gli ambienti di sviluppo per il mondo consumer sono sostanzialmente tre (Windows, Mac OS X e Linux) sui terminali mobili la guerra del software è assai più complessa e l’unica cosa certa è che non ci sarà spazio per tutti.
Se Android rappresenta la futura ipotetica alternativa open source e Windows mobile immagina anche per il mondo cellulare una supremazia che da quelle parti certamente Redmond non ha, se Symbian deve oggi molto alla qualità hardware dei device sui quali gira e iPhone gode della versione mobile dell’acclamato sistema operativo Apple, si comprende come davvero per la rediviva Palm le possibilità di spostare utenti non tanto su un terminale che appare affascinante ma su un ambiente software tutto da immaginare non siano poi tantissime.
Forse una possibile segmentazione del mercato potrà passare attraverso la leva economica. L’App Store di iPhone, a differenza dello Store musicale della casa di Cupertino – che è stato associato in questi anni alla lotta di liberazione dai costi esosi della musica imposti dalle major del disco – ha stabilito, in puro stile Apple, una relazione economica stretta fra software e sua fruizione quando, per esempio, le applicazioni software per i device mobili erano sempre state fino ad allora sostanzialmente gratuite.
I risultati sono sotto i nostri occhi e sono fortemente disomogenei. C’è una ampia disponibilità di grandi applicazioni gratuite ed un mercato discretamente sciocco a pagamento di piccoli gadget software inutili, le cui dinamiche assomigliano, con qualche distinguo e molta meno disparità fra il bene e il suo prezzo, al vecchio trading di suonerie ed altre amenità. Il risultato complessivo, al netto di pur esistenti scelte autarchiche nei confronti di possibili competitor, dà comunque ragione ad Apple, confermandone la capacità visionaria e costringendo tutti gli altri ad una ennesima affannosa rincorsa.
Secondo alcuni analisti, un simile ambiente economico non privilegerebbe lo sviluppo di software di qualità, invogliando gli sviluppatori a creare piccole applicazioni idiote con le quali arricchirsi in fretta. Secondo altri, la disponibilità di così tanto software dentro le nostre tasche, attaccato a quei formidabili computer che sono oggi quelli che un tempo chiamavamo telefoni cellulari, è destinato a rivoluzionare la qualità complessiva dei nostri rapporti con la comunicazione.
Quello che pare certo è che l’ambiente di rete mediato dai device mobili assomiglia sempre meno a quello aperto e condiviso della rete Internet, e questo non tanto e non solo per le note logiche di network chiuso tanto care agli operatori telefonici ma anche e soprattutto per i modelli economici imposti dalla industria dei cellulari.
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