Non è facile tentare un riassunto critico della vicenda che ha portato alla sentenza di primo grado emessa nella scorsa settimana dal Tribunale di Milano, nella quale alcuni rappresentanti di Google sono stati condannati per violazione della privacy in relazione ad un video pubblicato nel 2006 su Google Video. Punto Informatico ha seguito con costanza e continui approfondimenti tutta la vicenda, e anche nei giorni scorsi vi ha fornito notizie ed approfondimenti tecnico-giuridici sulla sentenza. A me oggi interessa sottolineare alcuni aspetti di contorno che rendono ben conto del clima in cui è maturata di una simile decisione.
Che in Italia esista un clima di ampia prevenzione nei confronti delle cose della Rete lo sappiamo tutti da tempo. Gli autori materiali delle violenze oggetto dell’inchiesta sono stati a suo tempo individuati e puniti, i genitori del giovane vittima si sono poi sfilati dalla vicenda, rinunciando alla querela che li avrebbe portati al centro di un circo mediatico al quale, nell’interesse del loro figliolo, non hanno voluto partecipare. Ai protagonisti effettivi della ignobile vicenda si sono così rapidamente sostituiti soggetti marginali e francamente ingombranti: ViviDown, un associazione che si occupa “della ricerca scientifica e della tutela delle persone affette dalla sindrome di Down” è diventata uno dei soggetti mediatici centrali in una vicenda che interessa invece un giovane affetto da autismo; il Comune di Milano è stato, per qualche ragione, ammesso (insieme a ViviDown) ad essere parte civile nel processo contro Google anche se la vicenda si è svolta in una scuola steineriana di Torino ed i server di Google Video sono in California. Piccoli significativi misteri della giurisprudenza italica.
Il clima, dicevo. Mentre accese discussioni, perizie di parte ed indiscrezioni varie dissertano sulla rapidità di rimozione del video da parte di Google (Google sostiene che la rimozione è avvenuta entro due ore dalla segnalazione della Polizia, ViviDown, nella inedita veste della pubblica accusa, afferma che il filmato è stato lasciato quasi due mesi sui server, diventando uno dei più visti nella categoria “funny”), le immagini di quel filmato disgustoso hanno attraversato decine di volte siti web, quotidiani e telegiornali. È accaduto più e più volte in questi anni e innumerevoli volte negli ultimi giorni. Piccoli effetti collaterali di una idea deteriore del diritto di cronaca che improvvisamente si disinteressa della vittima e del dolore dei genitori pur di raccogliere ascolti ed attenzione. Non un grammo della ampia indignazione verso Google ha raggiunto, mi pare, TG e quotidiani.
Se ci interessa capire l’ambiente in cui avvengono simili eventi, è interessante dar conto anche dei commenti alla sentenza, una sentenza della quale non si può, per ora, dire nulla di definitivo, visto che non se ne conoscono le motivazioni. Qualche considerazione è però possibile tentarla ugualmente. Google è uscita assolta in primo grado dalla accusa più consistente e pericolosa, quella di diffamazione. Una eventuale condanna avrebbe significato che la piattaforma è da ritenersi responsabile dei contenuti che ospita, esattamente come fosse un editore. Una eventuale decisione in tal senso avrebbe significato un cataclisma sulla comunicazione elettronica di questo povero paese, e bene è stato che non si sia proseguito in tale direzione.
La condanna di cui discutiamo riguarda invece la violazione della privacy e qui le cose si fanno complicate. Pur in assenza delle motivazioni, lo scenario che si apre è ugualmente preoccupante. Hanno ragione i media di tutto il mondo – che in questi giorni hanno dato molto spazio alla vicenda – a interrogarsi sulle conseguenze di una simile scelta per la libera circolazione dei contenuti in rete. E hanno torto invece gli editorialisti dei maggiori quotidiani italiani che, eccitati dalla sentenza, si sono rapidamente consegnati alla retorica spicciola della Rete anarchica contrapposta alla Internet delle norme. Menzione a parte merita il Senatore Gasparri, che ha rilasciato opportuna dichiarazione alle agenzie in cui parla di “sentenza esemplare”: anche se immagino nemmeno lui sappia bene perché.
Le possibili ipotesi di giustificazione della condanna di Google sono sostanzialmente tre. La prima, quella meno pericolosa ma anche meno probabile, è che la condanna riguardi i Termini di Servizio di Google Video, dove a suo tempo Google affermava che si riservava “il diritto (ma non l’obbligo) di visualizzare in anteprima, rivedere, segnalare, filtrare, modificare, rifiutare o rimuovere tutto o parte del Contenuto di qualsiasi Servizio”; la seconda, quella sottolineata da Stefano Rodotà in una intervista , riguarda i tempi della avvenuta rimozione e cioè se Google abbia avuto un comportamento omissivo nei confronti del video. A tale riguardo L’Espresso ha pubblicato nei giorni scorsi le mail intercorse fra gli impiegati di Google e le autorità, dalle quali sembrerebbe evidente che la rimozione del video è avvenuta in tempi molto rapidi.
La terza, quella purtroppo più probabile, è che il magistrato abbia inteso addebitare a Google l’onere dell’analisi degli eventuali dati sensibili sul materiale che ospita. Ne ha scritto con lucidità Elvira Berlingieri su Apogeonline , ricordandoci che le norme sulla privacy in Italia impongono un consenso scritto nel caso in cui si trattino dati sensibili. In altre parole qualcuno avrebbe dovuto farsi carico di chiedere al ragazzo vittima dei maltrattamenti l’autorizzazione scritta alla riproduzione del video. A chi spetta questo onere? A Google? O va forse riferito a chi ha materialmente girato il video? Aspettiamo le motivazioni del giudice per capire se davvero la condanna discende da una simile speculazione, nel frattempo è piuttosto evidente il rischio concreto che una simile, ipotetica, logica di prevalenza della norma porta con sé.
Ed è altrettanto evidente anche l’effetto di trascinamento che una simile decisione avrebbe su tutte le piattaforme sociali in Rete. Alla luce di tutto questo paiono giustificate le preoccupazioni espresse a commento della sentenza da parte della stampa internazionale, anche al di là dell’ovvio sostegno ad una azienda statunitense da parte di ambasciatori, commentatori vari ed editorialisti del New York Times . Il quotidiano newyorkese in particolare, con una qualche avventatezza, ha ritento di individuare un legame fra questa decisione e uno scenario italiano nel quale il Premier controlla gran parte dei media.
Purtroppo il clima in Italia è questo e credo non sfugga a nessuno che congetture del genere fanno il paio con altre norme demenziali che il Governo italiano recentemente sostiene, non ultima quella della necessaria autorizzazione preventiva per caricare video sulle piattaforme web partorita dalla fervida mente del Ministro Romani.
Vedremo se la legge sulla privacy sarà davvero il piede di porco per ulteriori tentativi di riduzione delle libertà individuali. Aspettiamo le motivazioni del giudice per capire se dobbiamo davvero preoccuparci, e convenire con i più pessimisti che sostengono da tempo che è in atto un ampio disegno di controllo dei media e della capacità dei cittadini italiani di formare liberamente i propri punti di vista.
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