Quella appena trascorsa è stata la ennesima settimana terribile per Facebook. Come dite? Non ve ne siete accorti? Probabilmente avete ragione. Il fatto è che le critiche che hanno interessato il gigante dl social network sono rimaste saldamente confinate all’interno di una grande conversazione su Internet dedicata ad addetti ai lavori e guru delle nuove tecnologie prevalentemente di lingua inglese. Che con insospettabile puntualità si sono dedicati, tutti assieme, alla critica delle ultime scelte di Facebook, particolarmente per ciò che attiene le impostazioni sulla privacy. Solo una quota molto piccola di questo intenso discutere ha probabilmente raggiunto la grande massa dei 400 milioni di utilizzatori della piattaforma.
Un paio di grafici riassumono efficacemente quello che è successo. Il primo , creato da Matt McKeon, illustra efficacemente come siano mutate dal 2005 ad oggi le impostazioni di default sulla privacy del social network di Mark Zuckerberg. Per riassumere in poche parole, cinque anni fa chi si iscriveva a Facebook partiva con una configurazione base di grande protezione dei propri dati: nel giro di un quinquennio Facebook ha gradualmente allargato lo spazio pubblico dei propri utenti sul social network, ed oggi praticamente tutti i dati del nostro profilo sono leggibili dagli altri iscritti alla piattaforma.
Da una situazione di opt-in (l’utente sceglie quali dati condividere e con chi) si è passati ad una di forte opt-out (l’utente sceglie quali dati non condividere). Una mutazione non banale in termini complessivi, se si considera che la grande maggioranza di chi si iscrive a Facebook non si preoccupa delle impostazioni del proprio account lasciando quelle di default.
Il secondo grafico, creato da Move On , si concentra sui recenti cambiamenti imposti da Facebook: la forzatura nei confronti dei dati degli utenti è evidente ed ha scatenato critiche forti ed omogenee. In pratica ad oggi tutte le informazioni del mio profilo (nome, età, data di nascita, lista degli amici, lavoro, scuole frequentate, interessi) sono diventate pubbliche, non solo per i miei amici ma anche per le applicazioni che questi decidono di utilizzare all’interno del network. Le informazioni di base del profilo sono invece diffuse (leggi “vendute”) da Facebook anche al di fuori del network (quindi ai motori di ricerca) e non c’è modo di renderle private.
In pratica aprendo un account su Facebook si rende noto agli spider dei motori la propria esistenza. Infine, attraverso una serie di accordi con società terze, Facebook ha creato un sistema di personalizzazione istantanea che ha scatenato furibonde polemiche: in poche parole Facebook allunga alle aziende collegate (per ora sono solo tre, ma aumenteranno) i dati personali degli iscritti e quanto questi scrivono sul proprio account.
Il punto di vista di Mark Zuckerberg al riguardo è noto: non è più tempo di privacy, gli utenti oggi vogliono condividere. E le scelte del social network vanno in questa direzione. In realtà la frase può essere variamente interpretata: è probabilmente vero che gli utenti desiderino condividere, ma verso gli altri utenti e non con le aziende collegate al network. Sia come sia, l’esperimento di apertura dei profili non è piaciuto a nessuno e tutta la stampa americana, dal New York Times a Slate , da RWW ai blog degli esperti di Rete (Dave Winer, David Weinberger, Danah Boyd, Jason Calacanis e molti altri) è piena di articoli di pesantissima critica.
Non solo: prendono piede iniziative alternative come Diaspora una ipotesi di social network anti-Facebook che basa sulle tecnologie open source lo sviluppo di una rete sociale pensata dagli utenti per gli utenti, con una grande sottolineatura delle tematiche connesse alla gestione della privacy.
Un altro fronte critico è quello inaugurato sul New York Times da Randall Stross , il cui ragionamento pubblico è tanto semplice quanto intuitivo. Facebook dichiara che la sua mission è quella di “dare alle persone il potere di condividere e creare un mondo più aperto e connesso”? Bene questa piattaforma esiste già, e si chiama Open Web .
È ovvio che la rendita di posizione acquisita da Facebook in questi anni non possa essere ignorata. L’esempio italiano aiuta a capirla meglio: in un paese come il nostro, a bassa penetrazione Internet, sono stati aperti 16 milioni di profili su Facebook. Questo significa che quasi un italiano connesso su due ha un account sul social network. Si tratta di cifre rilevantissime che conducono a due differenti valutazioni.
Da un lato questa grande massa di utenti rappresenta una occasione insperata ed unica di alfabetizzazione. La possibilità che il Paese cresca nella sua abitudine alla Rete (quello che Stross chiama “Open Web”) grazie ai buoni uffici del social network di Zuckerberg, capace di indirizzare verso una abitudine di vita connessa fasce di popolazione che fino a ieri non avevano alcun interesse in tal senso. Dall’altro simili grandi numeri consigliano una attenta osservazione critica delle scelte del social network: la società non da ieri si è resa protagonista di piccoli e grandi dimenticanze nei confronti dei diritti dei propri utenti. Diritti che pure esistono anche se il servizio è offerto su base gratuita.
Si utilizza spesso, quando si parla di Facebook, la metafora del continente. Facebook ha ormai un numero di utenti che ha superato quello dell’America del Sud. Le scelte commerciali di una società di dimensioni simili devono avere una attenzione pubblica proporzionata alle sue ormai continentali dimensioni.
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