Ho viaggiato un po’ in treno nei giorni scorsi e la notizia, che forse anche voi già conoscete, è che i treni italiani sono stracolmi di gente che se ne sta seduta con un notebook aperto di fronte. Specie nelle prime classi dei convogli, che forniscono con maggior frequenza i viaggiatori di tavolini e prese elettriche, molte volte incredibilmente funzionanti: sono un luogo, piccolo e significativo, della riscossa tecnologica del paese.
Il mercato degli ultramobile-pc, per dirne un’altra, è letteralmente esploso grazie ai primi innovativi modelli introdotti sul mercato da Asus ed ha trascinato ormai tutti i maggiori produttori di PC, da Dell a Lenovo. Molti dei prossimi possibili utilizzi di queste piccole macchine, che pesano meno di un dizionario di medie dimensioni e hanno costi attorno ai 300 euro, devono essere ancora immaginati.
Nuovi orizzonti sono resi possibili dalla disponibilità di questi piccoli, economici computer e l’esperienza di una scuola di Torino, raccontata da Luca Annunziata su Punto Informatico la settimana scorsa, è solo uno dei possibili esempi di aperture intelligenti della società nei confronti delle tecnologie che via via divengono disponibili.
Mentre lo stolto osserva il dito (il sistema operativo, il tipo di terminale scelto, la logica di collegamento alla rete ecc.) forse sarebbe invece il caso di considerare il sentimento generale che filtra da iniziative del genere, la capacità di certe pratiche di fare da volano ad altri approcci virtuosi, fosse anche solo la rivoluzione tecnologica di Trenitalia che decide di mettere prese di corrente accanto ai sedili dei suoi vagoni per consentire alla propria clientela di collegarci un notebook.
Il ritardo che tutte le statistiche europee assegnano all’Italia nel campo dello sviluppo tecnologico riguarda solo in minima parte la barriera economica di accesso alla rete ed alle tecnologie. In un’altra piccola quota ha a che fare con una barriera geografica. Nella stragrande maggioranza dei casi può invece essere spiegata con una questione assai più spinosa: la distanza culturale dei cittadini dalle pratiche della tecnologia. Un italiano su due oggi si estrania volontariamente dalle dinamiche sociali legate allo sviluppo tecnologico perché non ne sente il bisogno o, peggio, perché ne giudica le possibili ricadute come negative per la propria vita.
Questo sentimento comune che rende l’Italia un paese vecchio è solo parzialmente spiegabile con ragioni legate alla età anagrafica dei suoi cittadini. Viviamo del resto un periodo di transizione nel quale i “nativi digitali”, vale a dire i cittadini cresciuti con ampie disponibilità tecnologiche, sono ancora numericamente superati da una popolazione mediamente anziana e scarsamente aperta alla innovazione. Eppure tutto questo non spiega il ritardo che scontiamo nei confronti degli altri paesi europei che sono in analoghe condizioni demografiche.
C’è un fragoroso gap culturale che deve essere in qualche modo colmato se vogliamo sfruttare gli aspetti positivi dell’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre vite e se vogliamo imparare il linguaggio per disinnescarne gli aspetti negativi che sono molti, e in buona quota ancora misteriosi.
Per farlo serve quasi tutto. Serve anche fare cose imperfette, serve sbagliare, serve duplicare i servizi, serve percorrere vicoli ciechi per poi tornare indietro. A patto che la tecnologia sia il centro della discussione, che ci sia la voglia di cambiare e che questa voglia interessi direttamente i luoghi cardine della formazione culturale: la scuola, l’informazione, il tempo libero.
Non si tratta di mostrare una cieca fiducia nella innovazione per l’innovazione, ma di considerare invece l’innovazione il tema del discorso sociale. Il grande, enorme vantaggio che è possibile osservare oggi è che si tratta di un processo che può almeno in parte nascere dal basso, che può essere governato in maniera illuminata dalla politica e delle amministrazioni ma che in una certa quota si alimenta autonomamente e al quale tutti possono partecipare. Compresa una scuola di Torino che sperimenta l’uso dei computer nelle proprie scolaresche, una minuscola amministrazione comunale che copre in wi-fi la piazza del paese o anche le vituperate Ferrovie dello Stato aggiungendo una innocua presa di corrente a lato delle poltrone dei pendolari.
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