Roma – La petizione degli artisti contro la pirateria musicale comparsa sul sito della FIMI qualche giorno fa è un documento che – a parte l’uso eccessivamente spigliato della lingua italiana – ha due caratteristiche che credo debbano essere sottolineate. La prima è che si tratta di un decalogo di una ingenuità sconcertante. Possibile che gli artisti della musica italiana non riescano ad affrancarsi dal controllo stretto degli industriali che producono i loro dischi? E’ possibile, e questo proclama ne è la prova. Da osservatore esterno immagino che gran parte degli artisti italiani sentano effettivamente come un pericolo la distribuzione illegale del loro lavoro su Internet, ma quanto questo disagio riesce a produrre in termini di partecipazione attiva alla risoluzione dell’annoso problema sembra ridursi al demandare ai propri discografici ed alla loro organizzazione la tutela ideale del proprio lavoro. Si tratta – quando non di una imposizione dall’esterno – di un errore grossolano, perchè fra i tanti tasselli che concorrono a creare il problema pirateria musicale su internet uno dei più importanti, se non quello più importante, è proprio quello del rapporto fra musicista ed intermediario. Che il musicista demandi al suo intermediario la tutela dei propri diritti è un ottimo passo per allontanarsi da qualsiasi soluzione del problema.
Certo le major del disco tromboneggiano a parole sulla necessità di attivare al più presto il download legale di file musicali in rete – ed è curioso che ciò venga così enfaticamente sottolineato quando proprio loro hanno fatto di tutto in questi anni per ritardare l’inevitabile apertura di servizi come quello voluto da Steve Jobs di Apple – ma gli artisti sembrano continuare a non comprendere che il fulcro della discussione prossima ventura sul riassetto dell’economia dei contenuti musicali “dopo internet” passa proprio attraverso una ridiscussione profonda del loro rapporto con le grandi compagnie discografiche. Ed un loro più diretto rapporto con i propri fans.
Nella logica fintamente ingenua delle major, la rivoluzione di Internet applicata alla distribuzione musicale dovrebbe esaurirsi nella messa in atto di sistemi efficaci e remunerativi di download musicale associati ad una strenua lotta in tribunale ai sistemi di file sharing ed ai suoi utilizzatori. I milioni di pirati della musica su Internet. Che tutto insomma cambi perchè tutto resti come è. Una rivoluzione gattopardesca talmente misera da non poter essere presa in considerazione nemmeno nella più rosea (per le major) ipotesi di composizione del contenzioso che oggi contrappone l’industria discografica agli utenti della rete internet mondiale.
Così i vari Ligabue, Dalla, Bersani davvero non fanno una gran figura a mettere la loro bella firma in fondo a documenti che non solo non aggiungono elementi di mediazione o confronto alla diatriba ma che, manifestamente – proprio come hanno fatto i loro datori di lavoro in questi anni – sollevano un muro da opporre ad ogni possibile pacata discussione. E’ come se si dicesse: il mondo della distribuzione musicale è questo e questo vogliamo che resti indipendentemente dalla rete Internet. Fingendo di non sapere che il valore aggiunto che Internet porta alla distribuzione dei contenuti in rete ha un nome scritto in grande, “condivisione”, che non potrà essere ignorato in nessuna delle ipotesi possibili di distribuzione legale dei contenuti in rete. Se non si è disposti a prenderla in considerazione è del tutto inutile esprimere desideri del tipo: “Noi artisti musicisti ed autori desideriamo che il pubblico abbia l’accesso più ampio possibile alle nostre opere” .
All’interno di scelte suicide come queste, nelle quali, occorre prenderne atto, i discografici italiani trascinano i loro artisti più rappresentativi, non poteva mancare – ed è il secondo punto che mi colpisce nel documento della FIMI – un attacco frontale agli ISP. Era da prevedere, ma francamente non mi sarei aspettato di vederlo scritto in una forma tanto diretta e grossolana. In parole povere gli artisti accusano i fornitori di connettività di fare affari sulla loro pelle, vendendo contratti a larga banda di accesso alla rete in funzione della pirateria che attraverso tali linee verrà poi posta in essere.
Questo è certamente vero, sebbene in una misura da definirsi: ma è come se Prada o Louis Vuitton o Rolex si lamentassero con l’associazione camionisti perchè questi trasportano da Napoli alle spiagge di tutta Italia i loro preziosi carichi di merce taroccata. E a parte questo, l’attacco diretto ai fornitori di connettività ricorda da molto vicino quello che le major stanno intentando da anni ai loro clienti, assurti in modo molto rapido al titolo generico di “delinquenti”. Che finchè sono mille o diecimila o centomila o un milione possono anche continuare ad essere definiti “pirati” ma che quando diventano il numero stratosferico attuale dovrebbero suggerire il semplice ragionamento che qualcosa sta cambiando e che forse è tempo di prenderne atto.
Se ciò non bastasse si continua a sottolineare una identità fra larga banda e contenuti pirata. Già nell’ambito della discussione sul Decreto Urbani questo concetto era stato più volte affermato. Non si tratta solo di una grossolana imprecisione ma di una bugia bella e buona. Sono anni che andiamo ripetendo che lo sviluppo della rete in Italia, come nel resto del mondo, passa attraverso la possibilità di essere sempre collegati, con linee veloci e poco costose e che solo in questo modo è possibile usare Internet per il miglioramento non solo economico ma anche culturale della società. Non si può tollerare che qualche mercante e qualche incolto digitale ci proponga l’assioma semplice che la gente si collega a Internet solo per scaricare musica e film senza pagare. Perchè non è vero e perchè in questa maniera, in nome dei propri piccoli affarucci, si ostacola qualcosa di molto molto più grande che interessa il benessere di tutti.
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