Il Garante della Privacy Francesco Pizzetti nel corso della settimana appena terminata ha consigliato agli utenti italiani dei social network di registrarsi ad essi utilizzando uno pseudonimo. Secondo il nostro garante, Facebook ed i suoi fratelli mettono a rischio i nostri dati e espongono informazioni riservate al voyeurismo di aziende e curiosoni vari. Tale affermazione è stata rilasciata a margine di un incontro fra i garanti europei, intenzionati ad imporre norme che tengano le informazioni che gli utenti caricano sul loro profili sui software di rete sociale al di fuori della indicizzazione dei motori di ricerca, tentando così di riservare simili private informazioni solo ai nostri “amici” di rete.
Non è ben chiaro se il consiglio di Pizzetti debba essere inteso come l’intuizione di un utente appena sbarcato in rete con il suo inevitabile bagaglio di incertezze e punti interrogativi o se vada considerata una affermazione meglio strutturata e come tale basata su un assunto discutibile: quello che Internet sia un incidente marginale piombato nelle nostre vite e dal quale sia necessario difendersi.
Nel primo caso diamo il benvenuto al neo-utente Internet Pizzetti, rammentandogli che l’etica del nickname è non solo vecchia di oltre un decennio, ma rappresenta ormai un giardino spoglio e poco frequentato. Nascondere la propria identità dietro un nome di fantasia è il residuo storico di una idea che era un tempo saldamente condivisa (quella che in rete valessero più le parole delle facce e che su tale nuova scala di valori si potesse costruire un mondo meno imperfetto di quello fino ad allora noto) ma poi gradualmente superata dalla constatazione che Internet non sia più un circolo ricreativo dove si va a rappresentare una parte di se stessi differente da quella reale ma che incarni, banalmente, una quota organica della nostra identità sociale.
C’è da chiedersi: perché Pizzetti non suggerisce l’utilizzo dei nickname per esempio negli elenchi del telefono? Non sarebbe un’ottima idea? Solo io potrei sapere che “anatrella63” è mia zia e nessun martire del telemarketing potrebbe chiamare all’ora di cena chiedendo di poter interloquire col signor o la signora “anatrella63”. Purtroppo “anatrella63” è uscita – si potrebbe rispondere – ma se vuole può parlare con me che sono “sepultura85”.
La tutela della privacy è certamente sacrosanta e vale forse la pena ricordare che Internet ci ha fornito strumenti inediti e potentissimi per tutelarla, ma certe affermazioni, anche se apparentemente di buon senso, hanno purtroppo una sola concreta spiegazione: sono fatte da persone che rifiutano Internet come parte integrante della nostra identità individuale.
E su queste tematiche oggi Facebook sembra essere diventato il nuovo bersaglio sul quale focalizzare l’attenzione. L’alcolizzato cocainomane che uccide a colpi di mannaia la moglie lo ha fatto, secondo i media impazziti, per una sola ragione: perché la moglie ha mutato il suo status su Facebook tornando single. L’eco mediatica di queste e altre stupidaggini non può non avere un immediato riscontro istituzionale.
Il Garante della Privacy negli ultimi mesi ha individuato una serie di punti di debolezza della nostra privacy online: prima ha inneggiato ad un diritto all’oblio degli utenti dei motori di ricerca, quasi che il pagerank avesse una anima e dovesse decidere di caso in caso cosa evidenziare e cosa no con la “diligenza del buon padre di famiglia”. Poi ha focalizzato la sua attenzione sulle piattaforme sociali e solo qualche mese fa dichiarava al Corriere della Sera che l’uso di YouTube e dei social network “può determinare in futuro, specie nel momento dell’accesso al lavoro, rischi anche gravi per giovani e giovanissimi, che spesso usano queste tecnologie con spensieratezza e inconsapevolezza”.
È certamente vero: eppure questa attenzione così insistita ha qualcosa di paradossale. Viviamo in un mondo nel quale soggetti terzi maneggiano quotidianamente tonnellate di nostre informazioni personali al di fuori del nostro controllo: le banche sanno tutto di noi, il marketing disattende qualsiasi norma imposta, le aziende vengono fin dentro le nostre case a presentarci i propri prodotti non richiesti ed il Garante della Privacy, come un tipo strano che raccoglie margherite sotto il bombardamento, si preoccupa delle nostre pratiche di rete. E come lo fa poi? Insegnandoci la magia del No index nelle pagine web? Invitando le scuole a sensibilizzare gli studenti sulle buone abitudini in rete? Macché. Francesco Pizzetti ci suggerisce di sceglierci un nickname e con quello navigare felici fra i marosi.
E mentre ce lo suggerisce, ci avvisa paterno che Internet è un giochetto a doppio taglio, che si corrono rischi, che domani poi avremo di che pentirci della nostra sprovvedutezza. Invece di leggersi quello che da anni scrive per esempio Danah Boyd sulla sostanziale irrilevanza che gran parte dei giovani navigatori riserva alla propria privacy in rete, un campo amplissimo sul quale lavorare per sviluppare domani una coscienza collettiva, Pizzetti alza l’ennesimo grido di allarme su quanto Internet sia pericolosa. Mentre sul nostro telefono, dal quale si affacciano centinaia di rompiscatole ogni sera, su quello invece, misteriosamente, no.
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