Nel corso della settimana scorsa il Primo Ministro turco Erdogan ha prima minacciato e poi messo in pratica un blocco di Twitter nel suo Paese che ha suscitato molti commenti. Erdogan non è nuovo ad iniziative del genere: qualche anno fa , nel silenzio generale degli stessi media che oggi strillano l’attacco alla democrazia dei cinguettii, aveva bloccato, per ragioni risibili legate a presunte offese al padre della patria, l’utilizzo di Youtube in tutta la Turchia. Una censura che è stata mantenuta per quattro anni.
Ci sono due maniere possibili per commentare una simile notizia.
La prima, quella più usuale, molto utilizzata anche negli articoli usciti in Italia, è quella di descrivere la lesione dei diritti alla libera espressione dei cittadini di un Paese intero, i rischi per la democrazia che simili scelte causano, la necessità di una mobilitazione internazionale contro il despota censore. In questi articoli, di solito, si accenna brevemente a contesti analoghi di identiche odiose censure in altre parti del pianeta, al firewall cinese e ad altre evenienze del genere. In almeno la metà di questi articoli, fra quelli italiani, verrà citata o comparirà una breve intervista a Stefano Rodotà sulla necessita sempre più stringente di una Costituzione per Internet. Del resto sono molti anni che Rodotà va ripetendo, nel disinteresse quasi assoluto, la sua litania sulla necessità di un simile accrocchio burocratico per proteggere il mondo dall’Erdogan di turno.
Il secondo approccio possibile è quello tecnologico-salvifico. Anche questo è un tipo di articolo usuale in contesti simili. Il cattivo di turno spegne Twitter (o spegne Facebook o spegne la Internet intera nella sua nazione) e la Rete si organizza. Il fideismo sulla capacità di superare la censura tecnologica attraverso l’utilizzo di altra tecnologia è uno dei luoghi comuni più frequentati da quando esiste Internet. Benché molte evidenze, anche recenti, indichino l’esatto contrario (per esempio nei giorni scorsi, come è accaduto diverse volte durante le rivoluzioni arabe negli anni scorsi, improvvisamente tutta la rete Internet in Siria è stata improvvisamente spenta da qualcuno per ragioni a noi non note) simili articoli si concentrano e indicano le numerose vie d’uscita tecnologiche che consentono di gabbare il tiranno. Si basano insomma sull’idea della “internet che non si può bloccare”. Che ciò avvenga attraverso l’utilizzo di un DNS diverso (magari pubblicizzato in formato spray sul muro delle case , come indica questa foto scattata da qualche parte in Turchia che ha girato molto in Rete), che sia suggerendo la possibilità di twittare mediante SMS o il più sofisticato utilizzo di servizi proxy che consentano, come avviene in Cina, di saltare a piedi pari il filtro governativo, il messaggio resta chiaro: la Rete si organizza e, infine, vince.
Fascinated by this en masse Twitter ban circumvention. Piece by @zeynep gives a nice overview https://t.co/gIoukCHrni pic.twitter.com/GIJi47Rh5v
— meagan day (@meaganmday) 21 Marzo 2014
Entrambi simili approcci hanno significativi punti di debolezza. Da un lato non è vero che Internet non si può bloccare: non è vero che la sua natura distribuita impedisce ai regimi di condizionarla a proprio piacimento. Dall’altro la capacità della rete Internet di immaginarsi soluzione tecnologica a problemi di natura politica attraverso gli strumenti al momento disponibili è tanto vera quanto quantitativamente risibile. Anche in questo caso la dittatura del default avrà vittoria facile: per un cittadino turco che si ingegna a modificare il DNS ce ne saranno altri nove che non lo faranno. E nei casi estremi, dove l’investimento economico sulla censura tecnologica è sufficientemente ampio (in Cina o in Russia per esempio), a strumenti sofisticati di aggiramento della censura ne risponderanno altri altrettanto sofisticati e, in genere, più attuali e meglio gestiti.
E nonostante questo non è nemmeno vero che simili questioni possano avere soluzione in una concertazione politica internazionale: nella gestione di simili eventi manipolatori della Rete la risposta attraverso una Carta dei principi della Rete è una risposta del tutto inutile, magari formalmente ammirevole, ma inadeguata da un punto di vista pratico. Lo hanno capito un po’ tutti, tranne Stefano Rodotà.
C’è infine, da sempre, un solo approccio risolutivo possibile agli attacchi censori a Internet, ed è quello di una risposta tecnologica dal basso. Del resto Internet è nata così, attraverso un set di regole che hanno bypassato più o meno intenzionalmente, lo status quo. La soluzione è continuare in quella direzione.
Si tratta a ben vedere del medesimo problema che in questi mesi le grande aziende tecnologiche USA stanno avendo nei confronti delle incursioni NSA ai loro server. Occorrerà ovviamente non confondere i contesti: perché i problemi di Google e Facebook con NSA non sono, come Google e Facebook cercano di farci intendere, problemi dei cittadini alle prese con lo spione cattivo ma sono, prima di tutto, problemi aziendali dei giganti della Silicon Valley. In ogni caso, esattamente come avviene con NSA, la risposta ad attacchi alle libertà di Rete non può che essere una risposta di architettura di rete tenuta distante dal controllo dei governi. Le tecnologie esistono (dai sistemi di cifratura dei dati ai mesh network) hanno solo bisogno di essere implementate con maggior decisione nella struttura portante di Rete.
Niente di tutto questo potrà avvenire in maniera diversa dall’applicazione di standard di Rete fuori dal controllo degli apparati nazionali pena il loro fallimento. Niente di tutto questo sarà ovviamente una soluzione definitiva ma solo la risposta necessaria in una partita a scacchi destinata a proseguire in futuro. Già prendere coscienza di questo sarebbe un ottimo passo avanti. Perché dal punto di vista dell’architettura di rete e dei suoi buchi, Erdogan e Obama sono in fondo la stessa persona.
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