C’è un aspetto interessante nell’ampia discussione che ha avvolto in questi giorni la inconsueta lettera aperta che Steve Jobs ha pubblicato a proposito del futuro della musica digitale. È un aspetto che mi colpisce forse perché io non sono un produttore di iPod e nemmeno un artista, non sono stipendiato da nessuna major del disco e neppure scrivo software da proporre alle aziende che producono contenuti. Sono in altre parole un banale ascoltatore di musica come ce ne sono milioni e come tale in questi giorni vedo intorno a me un sacco di persone impegnate a spiegarmi come la penso nel campo della fruizione musicale illustrandomi con sicurezza quale sarà il mio interesse futuro di ascoltatore evoluto, trasbordato in rete dalla innovazione tecnologica.
Ho idea che Steve Jobs non sia il buon samaritano e mi pare ci siano ottime ragioni, che molti hanno acutamente sottolineato in questi giorni, per sostenere che il suo “Thoughts on Music” sia un punto di vista tanto affascinante (liberate la musica online dai DRM!) quanto interessato. Qualcuno si è chiesto se Jobs sia disposto ad estendere il proprio approccio libertario alla gestione dei DRM anche per esempio ai contenuti di Disney (società di cui è oggi il maggior azionista privato) e non solo al mondo del download musicale nel quale è “solo” incidentale e geniale intermediario. Non si tratta di una domanda troppo paradossale: la gestione di diritti sui contenuti digitali è oggi un problema singolo che riunisce tutto: dalla musica ai film, dai testi ai contenuti multimediali. Applicarlo solo al download musicale suona inevitabilmente come una utile forzatura.
Nonostante queste speculazioni, il fallimento strategico delle tecnologie DRM è sotto i nostri occhi da tempo e non c’è stato bisogno dell’intervento profetico di Jobs per indurre la EMI a decidere autonomamente di fare a meno delle protezioni software nei suoi prossimi prodotti musicali. Il partito dei sostenitori dei DRM è quindi ormai ridotto ai discografici (e nemmeno tutti) per una chiara e semplice ragione: alternative alla gestione autoritaria dei diritti (siano esse chiavi software o minacce di tribunale) all’orizzonte non sembrano vedersene.
Ma io sono l’utente e non mi piace che costoro continuino a spiegarmi cosa sia meglio per me. Così la tentazione sarebbe quella di provare ad immaginare da solo (visto che non esiste nè potrebbe esistere una Associazione Utenti Contenuti Intellettuali) quale sarebbe il futuro musicale migliore per me, senza essere sballottato a forza dentro le opinioni di questo o di quello.
Così, visto che, per una ragione o per l’altra, Internet ha aumentato la mia autonomia di scelta e la mia libertà nella fruizione dei contenuti (e di questo le sono violentemente grato da sempre) io vorrei dire che:
1) L’autore è il mio idolo . Quando ascolto un brano musicale o guardo un film o leggo un libro che mi piacciono, provo un sentimento di ammirazione, identificazione e riconoscenza nei confronti di chi ha lo prodotto che vorrei tramutare in denaro. Desidero pagare per i contenuti che mi arricchiscono, mi sembra giusto e civile. E mi pare che da ciò possa discendere anche un sistema economico efficiente. Ma vorrei poterlo fare singolarmente e direttamente. Vorrei retribuire solo ciò che mi piace e direttamente (il più possibile direttamente) al suo creatore. Non posso pensare che domani non sia possibile immaginare un sistema digitale che me lo consenta senza deprimere la creatività del pianeta.
2) Io non fruisco, compro . Il modello che molti furbacchioni oggi vogliono associare alla rete Internet è quello dello “fruizione” dei contenuti. Io non voglio lo streaming, voglio il download. Io voglio pagare quello che c’è da pagare a patto che il bene che acquisto assomigli il più possibile ad un paio di scarpe. Una volta acquistato devo poterci fare ciò che voglio. Voglio un libro da mettere nella mia libreria e far leggere ai miei pronipoti fra cent’anni, non una licenza a tempo per “numero 3 ascolti” del contenuto X.
3) Fuori i telegrafisti dal tempio . Esiste un universo ampio e frequentato di palafrenieri del lavoro intellettuale. Sono nati e si sono sviluppati a dismisura nell’ultimo secolo fino ad occupare gran parte dello spazio disponibile. Sono l’industria dei contenuti. Oggi la musica coincide più con i suoi distributori/editori/sostenitori/finanziatori che non con coloro che la compongono: la funzione di questi ultimi, nel mercato di massa dei contenuti, è ridotta a quella di veri e propri comprimari senza voce. Gli industriali dei contenuti sono oggi il vero freno alla innovazione poiché le loro prebende e la loro centralità nell’universo digitale sarà destinata a ridursi fortemente. Erano coloro che fino a ieri costruivano le strade fra compositore ed ascoltatore. Oggi le loro strade non sono più così frequentate ed il loro lavoro principale è diventato quello di ostacolare i percorsi altrui. Sono i telegrafisti che protestano per l’invenzione della posta elettronica.
4) Educare alla condivisione . C’è un grande lavoro formativo da fare, soprattutto nelle scuole, nei prossimi anni. Ci sono leggi da cambiare e diritti da riconsiderare. Ci sono nuove priorità per tutti da individuare e forse la principale di queste è ancora una volta quella della constatazione di Internet come strumento di condivisione e libertà dentro il quale confluisce ogni sorta di contenuto. Molti degli atteggiamenti compulsivi nei confronti dei contenuti liberamente raggiungibili in rete (leggi: pirateria) che hanno caratterizzato questi primi anni in rete, sono figli di una cultura del consumo cristallizzata da anni di mercato di massa. Quella degli alti costi e della duplicabilità controllata dei beni: di quella economia della scarsità dalla quale ci stiano rapidamente allontanando. Quando saremo sufficientemente distanti, forse ci accorgeremo tutti che il mercato della deprivazione, nel quale ogni bene scarsamente disponibile aumentava il suo valore, è diventato oggi una opzione senza senso, per lo meno per la grande massa di contenuti disponibili in formato digitale.
Libera voce a tutti, quindi. Alle visioni di Steve Jobs come a quelle dei vari attori del mercato. Alle utopie del no-copyright e perfino ai professori della Bocconi che chiedono a gran voce dalla prima pagina de “IlSole24ore” l’abolizione della SIAE (ebbene sì, la settimana scorsa è accaduto anche questo). Con la minima avvertenza però dei limiti di rappresentanza di ciascuno. Poiché fino a quando esisterà Internet così come la conosciamo (che Dio l’abbia in gloria), forzare gli utenti dentro gabbie di comportamento del secolo scorso continuerà ad essere uno sforzo inutile.
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