Roma – Fra le poche immagini ancora nei miei ricordi dei primi tempi del web, ce ne è una che risale alla fine del 1995. In quei giorni – esattamente il 12 dicembre – il Center for Democracy and Techology organizzò una delle prime manifestazioni di protesta mai viste in rete, il “Black Thursday Protest”. L’intento era quello di opporsi ad una legge che il Presidente Clinton si apprestava a far approvare e che avrebbe limitato fortemente la libertà di espressione su Internet. La protesta consisteva in un gesto semplice e spettacolare: listare a lutto il proprio sito web utilizzando uno sfondo nero per la homepage. Fra le oltre 2000 pagine web che in quel giorno mostrarono un funereo sfondo scuro ce n’erano anche alcune già allora molto note, come quella di Yahoo, la directory poi divenuta una delle imprese internet più importanti al mondo.
Jerry Yang, uno dei due fondatori di Yahoo, che in quel giorno del 1996 decise valesse la pena manifestare per la libertà di espressione in rete, giusto qualche giorno fa ha ufficialmente confermato alcune indiscrezioni diffuse nelle scorse settimane da “Reporters senza frontiere”: il giornalista e poeta cinese Shi Tao, condannato nel maggio scorso a 10 anni di reclusione per aver divulgato su Internet “informazioni governative confidenziali”, venne prelevato nella sua casa di Taiyuan ormai un anno fa, grazie alla collaborazione offerta alle autorità cinesi dalla filiale di Hong Kong di Yahoo.
Yahoo fornì infatti gli elementi per risalire all’intestatario dell’indirizzo email che aveva spedito ad alcuni siti americani la notizia secondo la quale le autorità cinesi (questo sarebbe il terribile segreto di stato) desideravano impedire ogni tipo di manifestazione pubblica in occasione del 15° anniversario della strage di Piazza Tienanmen.
Il caso di Yahoo non è certo isolato: molte società internet americane stanno in questi mesi sbarcando in Cina, nella speranza di guadagnare un posto di rilievo nell’enorme potenziale mercato asiatico della tecnologia. In molti casi, anche le più ricche e potenti fra esse, come Yahoo e Google stessa, hanno dimostrato di essere disposte ad accettare importanti compromessi con il governo cinese pur di preservarsi le opportunità attuali e future di questo nuovo mercato.
La giustificazione ufficiale di Yahoo nei confronti del caso drammatico di Shi Tao è stata la seguente:
“Come ogni altra compagnia globale, Yahoo si deve assicurare che i propri siti nazionali operino in accordo con le leggi, i regolamenti e gli usi del paese in cui hanno base”.
Seguendo lo spirito di questa affermazione di principio, Yahoo ha anche eliminato dai propri motori di ricerca cinesi ogni riferimento ad una lunga teoria di siti web favorevoli ad una maggior democrazia nel paese asiatico ed ha accettato di firmare un codice di autoregolamentazione che impegna la società a non rendere disponibili “informazioni pericolose in grado di minare la stabilità sociale” .
Se fino a ieri sulla ingiusta detenzione di Shi Tao nessuno muoveva foglia, oggi la ammessa complicità (trovatemi voi una parola diversa se riuscite) di Yahoo nella sua identificazione, sta fortunatamente dando una maggior risonanza al caso in tutto il mondo.
Le domande da farsi a questo punto sono sostanzialmente due.
La prima: per quali ragioni Yahoo o qualsiasi altra compagnia occidentale analoga decide di soprassedere ad un reticolo minimo di comportamenti etici e di personale dignità nel momento in cui si affaccia in mercati “difficili” come quello cinese? Ciò accade -come sembra – perché gli affari sono affari e al diavolo tutto il resto? Non va dimenticato che Yahoo a differenza di molti altri imprenditori piombati in questi anni in estremo oriente alla ricerca di manodopera a prezzi stracciati, vende tecnologie dell’informazione. E’ possibile continuare a farlo placidamente senza apparenti contraddizioni proprio laddove l’informazione vive in uno stato di evidente semi-libertà?
La seconda: cosa possiamo fare noi consumatori dei servizi di queste società per condizionarne maggiormente le scelte ideologiche? Dovremo forse allenare una sorta di attenzione critica, la stessa che consiglia a sempre più persone di non comprare capi di abbigliamento prodotti da multinazionali occidentali in paesi dove manca la minima tutela della dignità lavorativa di adulti e minori? Perché è ovvio che in un mondo globalizzato Yahoo, non può pensare di poter applicare pesi e misure differenti alla tutela dei diritti dei propri utenti senza subirne alcuna conseguenza almeno sul piano della immagine.
A monte di questo valgono poi le sacrosante considerazioni d Richard Florida che nella prefazione al suo saggio (L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori 2003, 17 euro) sulla nuova classe creativa, di cui Yahoo fa parte a tutti gli effetti, scrive:
“Ci troviamo quindi nella bizzarra situazione di avere in America una classe dominante – i cui membri occupano i posti chiave della industria dei media e del governo, come pure delle arti e della cultura popolare – che è in pratica inconsapevole delle propria esistenza e quindi incapace di influenzare il corso della società di cui di fatto è alla testa. La classe creativa ha il potere, il talento e i numeri per giocare un ruolo fondamentale del rimodellare il nostro mondo. I suoi componenti hanno ora l’opportunità di trasformare la loro capacità di introspezione e di riflessione in vera energia, in grado di operare un rinnovamento ed una trasformazione assai più ampi.”
Insomma, come a dire: cosa ce ne facciamo di società della sedicente “nuova economia” se tutto ciò che di nuovo mostrano è la velocità con la quale producono profitti?
Gli editoriali di M.M. sono disponibili qui