Esattamente 6 anni fa veniva commercializzato in USA il primo modello di iPhone. Era stato presentato da Steve Jobs alcuni mesi prima e, come talvolta accade, lo stupore aveva all’inizio superato l’ammirazione. Questa per esempio, come spesso mi ricordano gli amici più cari, una delle mie prime reazioni.
Nonostante si parlasse già da tempo di una intenzione di Apple di presentare qualcosa di simile ad un telefono cellulare, quando Jobs mostrò quella mattonella nera e alluminio con un unico tasto, così differente da qualsiasi altra cosa che avevamo utilizzato fino ad allora, ci sfuggì probabilmente il punto centrale della vicenda: il telefono, inteso come oggetto che trasmetteva conversazioni vocali e brevi messaggi di testo, finiva quel giorno.
Non che nel 2007 il traffico dati e l’accesso a Internet in mobilità non esistessero ma erano una sorta di costola sovrannumeraria nel torace del gigante della comunicazione mobile, vero e proprio totem dell’industria telefonica e oliata macchina spremisoldi. Lo sapevamo bene noi italiani che per un certo periodo, qualche anno prima, eravamo stati avanguardia mondiale nell’utilizzo dei cellulari. Forse, purtroppo, nel periodo sbagliato.
Insomma iPhone quel giorno rovesciò il tavolo: un oggetto da tasca per telefonare e mandare SMS e che in alcuni casi consentiva di leggere la propria mail, scattare pessime foto e navigare sul web fra mille limitazioni, diventava un terminale mobile di rete col quale era possibile anche telefonare e mandare messaggi. Una sterzata improvvisa imposta a tutti: ai modelli di business delle telco, alle abitudini degli utenti, all’industria dei cellulari e a quella del software. E anche un nuovo grande impulso allo sviluppo della rete Internet (poi sarebbero arrivati i tablet a completare il quadro). Una rivoluzione, come si dice in questi casi, per una volta senza esagerare, avvenuta in tempo tanto brevi quanto vorticosi, che non ha risparmiato niente, comprese le nostre abitudini sociali. Soprattutto le nostre abitudini sociali.
Se ci allontaniamo un istante dalle noiose questioni tecnologiche, ci accorgiamo che nel giro di poco strani gesti mai visti come lo sfiorare uno schermo piatto, pizzicarlo con due dita, inclinarlo da un lato, furono costretti a percorrere la grande distanza fra il gesto futurista e la normalità. In un battito di ciglia Steve Jobs su un palco a San Francisco scivola col dito sul display per rispondere a una chiamata, immediatamente dopo mia madre compie lo stesso gesto seduta nel divano di casa sua per rispondere a suo figlio. Una considerevole distanza riunita nel corso di poco più di un lustro.
Per questo oggi il tema non è Apple contro Samsung, Android contro iOS, Blackberry o Windows Phone, qui la faccenda è che se un oggetto diventa di colpo tanto diverso da quello che era prima, poi, necessariamente, si trasforma in qualcosa d’altro. E a quel punto risulta anche complicato descriverlo. Così oggi non c’è una parola meno efficacie di smartphone per denominare gli aggeggi che portiamo in tasca. Non sono più telefoni, piuttosto grandi protesi totipotenti di cui fino a poco fa nemmeno sospettavamo l’esistenza. Protesi momentaneamente senza nome.
Ci vuole poco ad accorgersene, basta salire su un bus, osservare i gesti della gente per strada. Qualche sera fa ero ad assistere ad un concerto di un gruppo rock molto noto: lo stadio era pieno, decine di migliaia di persone: a un certo punto il cantante ha chiesto al pubblico di accendere i display dei cellulari. Lo stadio in pochi istanti si è trasformato in una costellazione. Quei piccoli oggetti che ormai estraiamo di tasca con la maestria che riserviamo alle azioni quotidiane sono diventati migliaia di piccole improvvisate candele. Nulla che non sapessimo già.
Ieri mattina osservavo di soppiatto la ragazza seduta accanto a me nella metro: si truccava utilizzando la telecamera frontale del suo telefono. Alcuni li usano per leggere libri, altri ovviamente ci ascoltano la musica. Tutte azioni che sappiamo, ma tutte azioni in qualche misura nuove, figlie di tempi recenti, riunite in un apparecchio che una volta e anche adesso per brevità chiamiamo telefono.
C’è una lezione che possiamo provare a estrarre da questa storia? Probabilmente no, se siamo arroganti e cinici come ci vorrebbe la tecnologia che tante volte vive per giustificare se stessa. Se siamo arroganti e cinici tutto sottostà ad un disegno, avviene per gradi e dopo opportuna pianificazione. Ma se diversamente proviamo ad immaginare iPhone come la svolta quasi artistica in un percorso dalle molte variabili intenzionali (Internet stessa è il luogo principe delle variabili intenzionali), allora, magari solo per un istante, la tecnologia risulterà indissociabile da noi stessi, ne diventerà una sorta di penisola sentimentale. Ed è in questo che risiede l’inattesa genialità di quel progetto. Siamo noi e il nostro telefono allo stadio ad ascoltare i Killers e mentre lo trasformiamo in un lume nella notte o in un registratore o in una macchina fotografica o in uno specchietto per il trucco, quale sia il suo nome, l’esattezza del tecnologo va a farsi benedire. La stessa parola “telefono” è a quel punto più che sufficiente per dare un nome come un altro a qualcosa che un telefono di certo non è più.
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