Parliamo di pirateria musicale con una prima da cosa da dire subito: il paragone fra spacciatori di droga e spacciatori di mp3 tentato nei giorni scorsi da Enzo Mazza in una delle sue uscite meno felici, va rimandato al mittente. Non esistono, come invece farebbero immaginare le parole del presidente della FIMI pronunciate a commento della sentenza di un tribunale del Minnesota che ha condannato una donna americana al pagamento di oltre 220mila dollari per aver scaricato da Internet 24 brani mp3 pirata, confronti possibili fra strategie per contrapporsi a fenomeni come lo spaccio di droga e la condivisione in rete di materiale sotto copyright.
Tirate le orecchie a Mazza, occorre dire che la questione al centro delle cronache in questi giorni riporta l’attenzione su una tematica mai sopita nello sviluppo della rete Internet che non è quella particolare e meramente economica dell’immaginare nuovi modelli di controllo della pirateria online ma quella della distanza fra mondo digitale e mondo reale.
Chi colleziona luoghi comuni sulla rete Internet potrà confermarvi che due delle più frequenti frasi fatte che è possibile ascoltare quando si tenta di definire Internet, riguardano la sua anarchia e la speranza che non si trasformi in un nuovo far west (quest’ultima era una delle ossessioni linguistiche dell’ex Ministro Stanca).
L’idea banale che Internet diventi parte delle nostre vite di cittadini senza alcuna nota di eccezionalità è invece spesso sconosciuta, quando non vigorosamente rifiutata. All’interno di questa diffusa asimmetria, non è difficile osservare come le cose che accadono in rete e quelle che invece riguardano la nostra vita reale siano trattate con grandi ed incomprensibili differenze.
Qualche anno fa Lawrence Lessig nel suo libro Cultura Libera raccontava di come lo stato della California avesse due normative assai differenti per il medesimo tipo di reato. Il furto di un cd musicale dallo scaffale di un negozio prevedeva ammende massime di circa mille dollari. Il medesimo reato commesso online veniva quantificato dalla RIAA, l’associazione dei discografici americani, come un danno di 1 milione e mezzo di dollari. Possibile che il furto di dieci canzoni su un CD valgano una cifra e le stesse dieci canzoni in rete ne valgano una 1500 volte maggiore?
È ovvio che simili macroscopiche differenze sono, come tutti sanno, il risultato di una attività legislativa che in questi anni ha imposto pene sempre maggiori per reati piccoli, ancorché assai diffusi e di modesta rilevanza, al solo scopo di intimorire una folla molto ampia di utenti della rete che violavano la legge.
Ma come non è possibile scaricare su una 30enne ragazza madre gli stress ed i guasti di un modello di business che cambia senza che i suoi principali attori ne abbiano inteso il crollo, altrettanto non è possibile oggi trincerarsi dietro ad un “così fan tutti” per giustificare la costante violazione delle normative vigenti. Che sono, almeno in Italia, francamente inique e strumentali, indotte e coccolate negli anni dal controllo degli aventi diritto, ma che in ogni caso sanciscono un concetto sul quale non sembra oggi possibile derogare. Quello della illegalità della pirateria online.
A differenza dei discografici della FIMI, bravissimi ad allargare le braccia suggerendoci che in ogni caso “questa è la legge” (quando la legge è stata da loro fortemente voluta e molte volte appesantita ad arte al di fuori di ogni concetto di equità) il punto fondamentale sembra oggi essere non solo quello della valutazione del reato (la Commissione Cultura sta da tempo lavorando ad ipotesi di depenalizzazione del file sharing), quanto quello, più alto, complicato e definitivo della revisione della disciplina del copyright o in alternativa, quello di un ampio allargamento della disciplina del fair use.
Entrambi questi presidi di libertà e di condivisione della conoscenza della comunità dei cittadini sono usciti negli ultimi anni malconci e ridimensionati dal cannibalismo senza confini degli estremisti della proprietà intellettuale. Il punto di vista di questi signori è che tutto vada bene come era prima di Internet, che il copyright debba trasformarsi in un diritto eterno (o quasi) e che le finestre di libero utilizzo delle opere coperte dai diritti debbano annullarsi del tutto (o quasi). E la nostra classe politica si è dimostrata del tutto incapace a rappresentare le istanze della comunità nei confronti degli arroccamenti della industria multimediale.
Il punto di crisi di tutta questa discussione è che oggi non esiste una sola autorità illuminata, in Italia come all’estero, disposta a sposare la causa di una normativa in difesa della proprietà intellettuale molto efficace e rigorosa legata ad una profonda revisione dei meccanismi del diritto d’autore alla luce della nascita della società dell’informazione.
Qui non si tratta di inventarsi la maniera più efficace di inseguire pericolosi spacciatori internazionali di mp3 protetti dalla rete anarchica e tentacolare, quanto quella di comprendere che il mondo è cambiato e che se le norme non cambiano con lui (disinteressandosi ahimé di una vasta pletora di soggetti che oggi ed ancora per un po’ faranno fuoco e fiamme pensando solo ai propri interessi) poi è inutile ululare alla Luna.
Tutti gli editoriali di M.M. sono disponibili a questo indirizzo