È in corso una discussione statunitense, di cui dava conto Il Post nei giorni scorsi che riguarda un tema spinoso e interessante: che fine fanno i nostri dati online dopo che siamo morti? L’argomenti è diventato di stringente attualità nel momento in cui la famiglia di un giovane suicida ha chiesto a Facebook la password del ragazzo, ricevendone in cambio una risposta per ora interlocutoria. Mentre le norme e le consuetudini nella vita reale sono chiare e consolidate, in Rete si osserva qualche spaesamento in più.
Secondo alcuni sarebbe utile immaginare una sorta di testamento digitale nel quale sancire se e quali dati elettronici, fra quelli che abbiamo volontariamente messo in Rete, debbano essere consegnati agli eredi in caso di morte. Secondo altri, esattamente come è accaduto fino ad oggi, l’intero patrimonio di parole e immagini dovrebbe passare automaticamente, al momento del decesso, nella piena disponibilità dei parenti.
Ma accanto alla questione strettamente legale del testamento digitale esistono altri temi correlati dei quali si parla ancora molto poco. I profili online delle persone decedute che fine dovrebbero fare? Devono rimanere disponibili, a formare una sorta di lapide elettronica disponibile per amici e conoscenti, oppure dovrebbero essere cancellati o, ancora, magari completati con una segnalazione del decesso aggiunta da una pietosa mano elettronica? E ancora: le nostre informazioni, nel momento in cui non sono più sotto il nostro controllo, da chi potranno essere utilizzate? Da chiunque passi da quelle parti oppure no?
Già oggi assistiamo sempre più spesso, ad una ampia ed indiscriminata cannibalizzazione dei dati presenti online, specie per fini di cronaca giornalistica. “Rubare ai morti” è probabilmente una espressione troppo forte ma quante volte è accaduto ultimamente che i media diffondessero notizie private e spesso irrilevanti, ottenute su Internet mediante piccoli sotterfugi informatici? Nel momento in cui vaste fette della nostra vita di relazione si trasferiscono on line potremo ancora consentire alla stampa di trincerarsi dietro l’alibi secondo il quale se le mie parole o le mie foto sono in rete allora possono essere comunque liberamente utilizzate?
Paradossalmente, nel momento in cui prendono concretezza simili temi, un primo passo utile potrebbe essere quello di rispettare almeno una grammatica minima dei luoghi di Rete. Una nuova piccola netiquette per divulgatori secondo la quale ogni forma di sradicamento delle informazioni dovrebbe essere evitata, visto che la Rete fornisce già gli strumenti per raggiungere luoghi digitali lasciando intatte peculiarità e limitazioni. Così un profilo Facebook non dovrebbe poter sfuggire alle sue finalità originarie (in genere quello di essere accessibile solo agli amici che noi stessi abbiamo selezionato) per finire magari ricopiato sulle pagine di un giornale, così come un video che abbiamo postato su Youtube non dovrebbe essere copiato altrove, fuori dalla nostra volontà originaria.
“Link the rest” (letteralmente linkate il resto , ndR) intimava anni fa Jeff Jarvis in una famosa frase dedicata al giornalismo in Rete, un consiglio che, eletto a regola meno occasionale, consentirebbe tra le altre cose di mantenere intatti luoghi e contesto dei pensieri in Rete di chi ci ha lasciato.
Ma oltre a tutto questo, oltre gli interrogativi sulla liceità giornalistica in Rete, resta il tema spinoso di iniziare a prendere coscienza che se Internet diventa così prepotentemente luogo di relazione e racconto di noi, dovremo prima o poi, con i tempi tecnici che siamo soliti dedicare ai pensieri meno piacevoli, immaginare come queste relazioni e questi racconti potranno essere rispettati ed onorati (o anche, perché no, cancellati, se lo desidereremo) quando non ci saremo più.
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