Roma – Torna in primo piano la faccenda della mistificazione digitale. E’ accaduto questa settimana, con la divulgazione da parte del governo americano di quello che ormai tutti chiamano “the tape”: la registrazione nella quale Osama Bin Laden ammette l’attacco terroristico alle twin towers, ne commenta il numero di morti e l’effetto dell’impatto degli aerei sulle strutture portanti e nella quale infine esprime la terribile soddisfazione per gli effetti distruttivi ottenuti.
Si tratta di una prova certa – si sono chiesti in molti, prime fra tutte le autorità americane – della colpevolezza dello sceicco saudita? Esiste la possibilità che quello che ci sembra assolutamente reale non lo sia affatto? Per quale ragione l’apparente inizio cronologico della registrazione è posto alla fine del nastro? E la data del display digitale, quella del 9 novembre, è quella reale? E come mai la qualità dell’audio è così scadente?
Da quando il mondo è “digitale” queste domande e moltissime altre con loro sono diventate parte integrante delle nostre opzioni di conoscenza: le tecniche di mistificazione dell’immagine sono divenute il fulcro dell’attività di doppiogiochisti di ogni genere e successivamente, come ogni opzione di grande successo, hanno invaso altri ambiti, compreso quello dell’intrattenimento. Moltissime scene di gran parte delle pellicole cinematografiche che vedremo a Natale, la grandissima parte delle fotografie sulle quali fermeremo lo sguardo su settimanali e quotidiani, i prodotti mostrati ogni giorno negli spot televisivi, sono tutti, sempre di più, sottoposti ad un make up digitale che ne altera fortemente l’aspetto, ne migliora (o ne peggiora) l’apparenza ed aggiunge messaggi supplementari che la nuda rappresentazione della realtà evidentemente non conterrebbe.
Qualche mese fa circolava sui canali televisivi musicali un video di George Micheal in cui il cantante inglese si muoveva all’interno di una discoteca nella quale tutti i presenti erano lui: si recava al bar e il barista era George Micheal, la folla che ballava in pista era interamente composta da tanti George Micheal, il DJ era sempre Micheal e così via. L’effetto straniante di quel video non era tanto nella sorpresa che tale artificio dava allo spettatore, ma semmai nel fatto che l’effetto digitale dei più Micheal contemporaneamente in scena era tecnologicamente così efficace che, benché fosse evidente che tale multipla duplicazione non era possibile, si passava il tempo della canzone a cercare (invano) le tracce del trucco utilizzato.
Anche Osama Bin Laden può quindi in teoria essere un fake e non sarebbe certo la prima volta che immagini o notizie false raggiungono le nostre case a sostenere questa o quella parte in causa. Non è questa la novità: semmai la larghissima diffusione di tecniche digitali molto raffinate ha oggi – come sosteneva Bill Joy nel suo pessimistico saggio su Wired un anno fa – messo nelle mani di tante persone strumenti potentissimi di elaborazione della realtà la cui oggettività non è mai stata tanto in dubbio come oggi. E se anche la tecnologia non dovesse sfuggirci di mano – come Joy teme – certamente già ora essa consente a chi la controlla di adulterare profondamente i messaggi che ogni volta ci raggiungono.
La rete Internet ha una funzione centrale in questo nuovo scenario essendo da un lato il moltiplicatore rapidissimo di ogni informazione e dall’altro un ineguagliabile strumento di controllo e commento ad ogni fonte. Siamo abituati a vedere spesso sottolineata la prima di queste caratteristiche: l’anonimato e la rapida diffusibilità dei bit attraverso il web e la posta elettronica sono ormai diventati lo strumento principe di diffusione di false informazioni di ogni tipo. Dalle improbabili prestazioni sessuali di Britney Spears ai piani nucleari di Osama, il fake corre fra le maglie della rete alla velocità della luce. In moltissimi sostengono così oggi la necessità di controllare le fonti e, per la navigazione in rete, di obbligare ciascuno di noi ad una previa identificazione.
Gli scienziati, dal canto loro, urlano per il crollo dell’autorevolezza dei report scientifici accessibili su Internet mentre i giornalisti vorrebbero bollinare ogni notizia data in rete dagli iscritti all’albo come degna di stima, allontanando ogni altra dall’attenzione del grande pubblico come irrilevante. Eppure non è così semplice e non è un caso che, da quando esiste Internet, moltissime delle debolezze, delle superficialità e della inconsistenze di chi fa informazione certificata siano clamorosamente venute in superficie.
Il ruolo che pochi invece amano riconoscere a Internet è quello di grande e positivo vaso comunicante: insieme al falso circola infatti in rete, per chi la vuole cercare, la sua interpretazione, la possibilità di identificarlo e di renderlo pubblico; la capacità di osservarlo da ogni possibile prospettiva ed anche quella di smascherarlo. E’ questa la grande novità del mondo digitale collegato: non tanto la banale constatazione che l’informazione ha un colore (e talvolta una sua rispettabile deontologia e una sua intrinseca correttezza) e un orientamento e nemmeno il fatto che gli strumenti di elaborazione dell’immagine ne consentono oggi sofisticazioni potentissime che possono allegramente spaziare dalle mimetiche di Bin Laden alla capigliatura di Berlusconi.
No, quello che Internet consente per la prima volta da quando esistono i media è di partecipare al processo di formazione e di setaccio dei contenuti, di criticarli dall’interno possedendo gli strumenti individuali per farlo. In un mondo in cui la mistificazione digitale diventa sempre più importante e dove esperti di grafica devono visionare i 61 minuti e 47 secondi del video di Osama fotogramma per fotogramma per escludere possibili falsificazioni, non sembra più il caso di delegare troppo alle competenze altrui ciò che è diventato possibile fare da soli. A meno che non si ritenga opportuno appaltare ad altri anche l’utilizzo della propria personale – piccola o grande che sia – intelligenza.