Personalmente il dibattito in corso sulle grandi nuove opportunità che ci attendono ora che il WiFi è stato liberato, ed è possibile utilizzarlo senza gli impedimenti del decreto Pisanu, non lo capisco. Così come fatico a comprendere l’eccitazione per il modesto progetto di copertura WiFi del centro storico che il Comune di Milano ha ripresentato in questi giorni (forse per la terza volta nel giro degli ultimi anni).
Reti civiche e scomparsa degli obblighi di autenticazione per le reti wireless rientrano nel tema più ampio del diritto all’accesso, e come tali sono argomenti di cui è certamente utile discutere; il diritto all’accesso poi, anch’esso spesso citato a sproposito, è semplicemente la prima pietra di una costruzione ideologica secondo la quale, dalla maggior capacità dei cittadini di collegarsi fra loro e di essere informati derivano democrazie più salde e partecipate, e quindi, in definitiva, il benessere complessivo della nazione.
Ridiscendendo dai massimi sistemi verso la Terra, perché penso che ci stiamo occupando con grande drammaticità di temi marginali ed ininfluenti? Sostanzialmente per due ragioni: perché abbiamo a disposizione l’esperienza di altri paesi occidentali che hanno sperimentato nel nostro quinquennio di vacanza legata al decreto Pisanu lo sviluppo delle reti wireless libere e la nascita (e la precocissima decadenza) delle reti civiche comunali di accesso alla Rete, e perché l’eccezione italiana (chiamiamo così questa strana anomalia che mantiene questo Paese in fondo a tutte le classifiche di accesso a Internet) disegna un panorama sociale di accesso alla Rete che dovrebbe consigliarci qualche valutazione e qualche provvedimento supplementare.
Il primo dei due punti è facilmente riassumibile: non esiste a tutt’oggi un solo progetto mondiale di accesso gratuito alla Rete costruito da una municipalizzata (o meglio ancora sorto dalla libera iniziativa di gruppi di cittadini) che possa definirsi tale per dimensioni e caratteristiche tecniche. È fallito il WiFi gratuito di Filadelfia, quello pagato coi soldi Google a San Francisco, sono stati via via abbandonati un po’ in tutto il mondo le grandiose iniziative che avrebbero dovuto trasformare l’accesso alla Rete in una commodity direttamente fornita dalle amministrazioni. Le ragioni di questi vistosi fallimenti sono legate ai limiti intrinseci della tecnologia (scarsa penetrazione negli edifici chiusi, necessità di posizionamento di un numero molto alto di antenne), ma sono per la maggior parte correlate ad una incompatibilità di fatto con l’accesso commerciale alla Rete e ad una sostanziale invasione delle amministrazioni nel business degli ISP. Con la non marginale postilla che il Comune di Milano o quello di Venezia non sono un ISP.
Il secondo punto è quello per me maggiormente interessante. Ciò di cui abbiamo bisogno è che i cittadini italiani si innamorino di Internet. Sondare i motivi per cui tutto questo fino ad oggi è avvenuto solo in parte è sociologicamente interessante, ma ancora di più lo sarebbe se la politica e gli amministratori si domandassero quali scelte possano spostare verso l’utilizzo di Internet quella rilevante quota di italiani che a tutt’oggi non desidera sentirne parlare. Sono molti, rappresentano una grande eccezione culturale, una delle tante, di questo paese. Sono quella fetta della torta che separa le nostre statistiche di accesso da quelle degli altri paesi occidentali. Non sarà liberando le frequenze del WiFi che riusciremo a convincerli.
Se c’è un percorso da fare tutti assieme nei prossimi mesi questo non può risolversi nella rivisitazione delle norme (né tantomeno nei tentativi di modificare perfino la Costituzione). È forse consolatorio pensare che il sig. Rossi Mario sia stato frenato nel suo impetuoso afflato verso il web dal legislatore ignorante, così come sarebbe infantile immaginare che il bollo statale che testimonia la genuinità della rete serva a trascinare le masse verso Internet.
Compilare una lista delle cose da fare perché gli italiani si innamorino di Internet è la vera frontiera burocratica dei prossimi mesi. Serve l’apporto di tutti, servono idee intelligenti ed anche escamotage furbetti. Nessuno dovrebbe sentirsi escluso da questa elaborazione strategica: la politica in primo luogo, ma anche i grandi mediatori culturali, senza escludere le aziende della comunicazione, per lo meno quelle in grado di avere una visione che travalichi il breve periodo. Scriviamo un grande post-it, sottoponiamolo ai miscredenti. Convinciamoli che più che al nostro interesse stiamo pensando al loro, smettiamo di guardare la Rete dal monocolo appannato del nostro piccolo interesse. Non abbiamo in fondo molte altre alternative.
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