Sarà contento Chris Anderson che su Wired, solo qualche settimana fa, teorizzava un ipotetico futuro digitale con meno web e più applicazioni. Twitter qualche giorno fa ha presentato la nuova versione delle propria piattaforma (sarà online nei giro di qualche settimana) ed alcuni commentatori americani si sono affrettati a paragonare Twitter a Facebook per la sua annunciata aspirazione di proporsi come piattaforma di navigazione il più possibile recintata, dentro la quale sia possibile fruire contenuti differenti e nuovi rispetto ai semplici messaggi di testo.
Twitter aggiungerà video, foto ed altre amenità alla propria colonna testuale di aggiornamento e questo renderà possibili due nuove abilità: quella di tenere stretti gli utenti dentro il proprio servizio e quella di immaginare nuovi spazi fisici dove aggiungere messaggi pubblicitari.
Il paradosso di Twitter è del resto lo stesso paradosso di Facebook: un grande successo di pubblico associato ad una quasi completa incapacità di estrarre denaro da una simile aggregazione di milioni di utenti.
Con questa mossa la metamorfosi di una delle più interessanti start-up della rete degli ultimi anni sembra definitivamente compiuta. Si parte con un grande idea che intercetta autentiche esigenze comunicative degli utenti, su una simile intuizione si costruisce piano piano il proprio successo, per poi accorgersi che tutto questo servire la comunità non ripaga il venture capital e lascia le casse vuote a fine anno.
Twitter nasce come un sistema di comunicazione punto a punto, personale e immediato, ideale per piccoli gruppi, intelligentemente crossmediale (in un momento in cui la transizione fra SMS e traffico dati in mobilità non è ancora compiuta) e basato sulla copertura di quella comunicazione irrilevante che riempie buona parte delle nostre vite di relazione. Il “what are you doing?” degli esordi viene poi in seguito abbandonato appena a Twitter si accorgono che i numeri grossi non vengono da questa ampia nuvola di comunicazione inutile e familiare che sta alla base del progetto ma da meccanismi molto meno innovativi, tipici del mercato di massa, come quello di seguire un flusso informativo monodirezionale del nostro attore o sportivo preferito. Mentre milioni di utenti soddisfano se stessi seguendo su Twitter Ashton Kutcher che fotografa Demi Moore in mutande mentre stira, mentre Serena Williams protesta flebilmente perché le è stato proibito di twittare fra un cambio di campo e l’altro, la piattaforma di microblogging viene assalita, come capita sempre in questi casi, da marchettari di ogni specie e colore, politici in ansia da visibilità ed esibizionisti vari, annacquando vistosamente la propria vocazione sociale.
Discorso a parte merita l’informazione: un paio di eventi in particolare, l’utilizzo di Twitter come unico canale informativo non censurato durante le proteste elettorali in Iran (sebbene analisi successive abbiano fortemente ridotto la portata dell’evento) ed alcuni singoli episodi di grande impatto come la foto twittata da Janis Krums immediatamente dopo l’ammaraggio di fortuna di un volo di linea nell’Hudson, hanno fatto gridare gli ottimisti al miracolo. L’informazione, hanno iniziato a sostenere in tanti, sarà prima di tutto twittata. A ruota di questa intuizione molti quotidiani anche autorevoli presidiano ormai da tempo il mezzo, proponendo sul proprio canale Twitter una sorta di minigalleria informativa per i propri sottoscrittori.
L’utilizzo di Twitter come presidio informativo è – a ben vedere – una moda discretamente insensata: non c’è nulla che un banale feed RSS o un live blogging non possano fare meglio di Twitter se lo scopo è informare con velocità un certo numero di utenti. Ma anche in questo caso la dittatura della piattaforma ha avuto il sopravvento e visto che, specie in USA, molti utenti preferiscono Twitter ad altri flussi informativi ecco che più o meno tutti gli attori dell’informazione hanno deciso (giustamente) di replicare in sedicesimi i propri contenuti da quelle parti.
Questo mentre è piuttosto ovvio che il vero valore informativo di Twitter risiede semmai nel racconto in tempo reale degli eventi da parte dei cittadini e non nella sua messa in prosa da parte dei professionisti dell’informazione.
Ma seguendo questa idea il “what are you doing?” degli esordi, richiesta intima e personale, si è trasformata nel “what is happening?” attuale, ad avvalorare una idea di piattaforma informativa che i fondatori di Twitter dicono essere il risultato del desiderio dei propri utenti ma che, di fatto, ne orienta l’utilizzo verso lidi meno interessanti di quelli originari.
Da domani Twitter assomiglierà un po’ di più a Facebook, per lo meno nel coltivare l’aspirazione impossibile di bastare a sé stesso. Si tratta di una aspirazione storicamente perdente che può essere certamente fortificata dai grandi numeri ma che non sembra avere ragione di essere nel medio periodo e che soprattutto non inciderà troppo sulle scarse possibilità di chiedere soldi ai propri utenti. Non è un caso che Facebook negli ultimi due anni abbia discretamente ridotto le proprie aspirazioni scellerate di creare un muro artificiale fra i bit residenti fuori e dentro la piattaforma. Alzare grandi steccati in rete non paga, occorre immaginare qualcosa d’altro.
Esattamente come le aspirazioni commerciali di Chris Anderson dove l’immaginazione sul futuro è declinata forzosamente a partire dalla sola sostenibilità economica, anche per Facebook e oggi per Twitter l’idea stessa che i propri utenti si trasformino in adepti fedeli e pigri di una unica chiesa a pagamento è un pensiero tanti invitante quanto improbabile. Dai tempi della Internet chiusa di AOL in qua, ci sono quindici anni di storia della rete a testimoniarlo.
Tutti gli editoriali di M.M. sono disponibili a questo indirizzo