Misureranno le prossime settimane se l’attentato di uno squilibrato contro Silvio Berlusconi a Milano abbia scatenato dinamiche paragonabili, seppur ridotte in dodicesimi, a quelle che nel 2001 seguirono in USA l’attacco alle Twin Towers. Assieme alle raccomandazioni trasversali allo stemperamento dei toni, che un po’ tutti ripetono in queste ore, vanno infatti registrate, in un numero assolutamente considerevole di casi, le reazioni politiche legate alla rappresentazione “popolare” ed al commento degli eventi accaduti.
Mentre la storia recente ci racconta che il crollo delle Torri fu la ragione (o il pretesto) per un giro di vite sulla libertà di tutti i cittadini americani, attraverso una legge, denominata Patriot Act, scivolata liscia come un saponetta bagnata nel suo percorso parlamentare sull’onda dell’emozione dell’attentato, anche da noi si inneggia alla necessità di un maggiore controllo.
È bastato il gesto di ieri in piazza a Milano a scatenare le reazioni di moltissimi parlamentari che, fin dalle prime ore, hanno iniziato a rilasciare dichiarazioni sugli eccessi di libertà che affliggono questo paese. Ed è abbastanza naturale che, accanto a quanti teorizzano la necessità di predisporre leggi dello Stato capaci di impedire la manifestazione del dissenso nelle piazze, ci siano quelli che, per strade infinitamente più brevi, immaginano di controllare, censurare ed eventualmente sanzionare i comportamenti dei cittadini che manifestano su Internet il proprio punto di vista.
Mentre Facebook è ancora una volta nell’occhio del ciclone, anche in virtù della grande diffusione popolare che il social network ha avuto in Italia, ed è il luogo principe della contrapposizione ideologica, questa mattina nel corso di un programma televisivo Mediaset l’on. Mantovano affermava che la Polizia Postale avrebbe provveduto “certamente” ad identificare in Rete chi avesse aderito alle manifestazioni virtuali di appoggio a Massimo Tartaglia. Questo – immagino – nella presunzione che, qualsiasi espressione verbale o scritta di assenso ad un gesto criminale, debba trasformarsi anch’essa in un qualche reato nei confronti della collettività.
Varrà la pena ricordare che la libera espressione dei cittadini è un valore fondante di tutte le democrazie e non solo un cospicuo impiccio per la gestione del consenso politico.
Le future leggi dello Stato tutto o quasi ovviamente potranno: in presenza di una adeguata maggioranza legiferante sarà possibile vietare la vendita delle mele rosse a vantaggio di quelle gialle, nel frattempo, attaccandosi disperatamente alle normative attuali il numero delle opinioni criminalizzabile è per fortuna molto modesto, anche se in rapida ascesa.
Gabriella Carlucci ha approfittato della grande confusione per inneggiare alla fine dell’anonimato, altra idea utilissima ad un rapporto chiaro e diretto fra cittadino e suoi controllori che ha vaste declinazioni su Internet. Ai meno distratti non sfuggirà che questa nuova glasnost viene raccomandata dalla parlamentare sempre e comunque, sia che si tratti di proteggere l’industria dell’intrattenimento dalla pirateria Internet sia che sia utile ad una normalizzazione delle possibili opinioni dei cittadini sugli argomenti più disparati. In realtà la rappresentazione concreta di una idea simile, nelle forme immaginate dalla Carlucci, ha già un nome e si chiama “stato di polizia”.
Censurare Facebook non è questa grande idea, ma è un orizzonte immediato e apparentemente a portata di mano della folta legione dei censori nostrani: il cui scopo, fuori dall’emergenza di un atto esecrabile, è quello di poter lavorare in pace senza l’assillo di una qualsiasi manifestazione avversa. E ogni arma è utile per ottenere questo, in un paese in cui lo stato di diritto è ormai materia per la raccolta differenziata della carta.
Nemmeno serve ripetere per la millesima volta che Internet non è un luogo “altro” rispetto al resto delle nostre vite e che, come tale, è sottoposto alla vigente giurisdizione, né più e né meno di una piazza delle nostre città. Luoghi nei quali, per ora, non è necessario circolare con la carta di identità in mano e nemmeno attendersi una manganellata se si stigmatizza, anche non troppo educatamente, una difforme visione rispetto a quella del governante di turno. Questo almeno fino a quando ci sarà un turno.
E non è nemmeno vero quello che scrive Mario Calabresi sul suo editoriale su La Stampa :
La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.
È necessario uno sforzo di immaginazione notevole per credere ad uno scenario simile: un mondo in cui una comunicazione elevata e ragionata della politica e dei giornali si contrapponga allo strillo indistinto ed animalesco della Rete.
Pur essendo pleonastico vale la pena ricordare che esiste una sola Internet con “dentro” opinioni buone e opinioni cattive, esattamente come esiste una politica buona ed una cattiva (ed un giornalismo altrettanto variabile). I cittadini non sono (troppo) diversi dai loro governanti, tanto meno dai giornalisti. E la storia recentissima della comunicazione in questo paese, dai killeraggi prodotti dai quotidiani, ai ministri che strillano in TV “devono morire” o “vada a morì ammazzato”, ne è l’esatta rappresentazione.
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