Una quota non trascurabile delle informazioni che ci raggiungono tutti i giorni sono in violazione di un qualche patto o regolamento, nei casi più gravi sono il risultato di un reato. Appartengono a questo gruppo buona parte delle informazioni che, per esempio, in questo paese, raggiungono i giornali dalle stanze dei tribunali, dalle questure, dai consessi nei quali individui molto differenti sottoscrivono un patto di riservatezza che qualcuno di loro poi, invariabilmente, viola. Queste eccezioni a patti e regole non sono opera dei giornalisti, i quali si limitano a riferire i fatti di cui vengono a conoscenza, ma restano in genere nella responsabilità di soggetti terzi, ai quali, semplicemente, i giornalisti garantiscono in cambio un livello minimo di riservatezza previsto dalla legge.
Nel caso di Wikileaks, evidentemente, questo fondamentale distinguo ha perso gran parte della sua importanza. Così durante la settimana scorsa il sito web della associazione di Julian Assange è stato preso d’assalto dagli attacchi DDoS di un singolo hacker (solo e sperduto ma nonostante questo molto efficace), Amazon Web Services (fra mille polemiche) ha interrotto il servizio di hosting a Wikileaks, il fornitore del dominio .org (altra società americana, EveryDNS) ha improvvisamente cancellato il dominio, il governo svedese ha diramato una richiesta di arresto internazionale in 130 paesi per Julian Assange, accusato di aver, in due occasioni, iniziato rapporti sessuali dotato di preservativo con partner consenzienti (tanto consenzienti da aver poi vantato le proprie avventure su Twitter e via SMS) per poi terminarli senza. E questo, tecnicamente, per la legge svedese configura il reato di stupro.
Ultima in ordine di tempo fra le aziende americane corse in soccorso alla diplomazia USA in difficoltà, Paypal ha limitato il conto online di Wikileaks impedendo a migliaia di persone in tutto il mondo di utilizzare tale piattaforma per una donazione al progetto.
Cosa abbia Wikileaks di diverso da New York Times o dal Guardian che pubblicano i dispacci delle ambasciate esattamente come il sito di Assange è piuttosto evidente. Pur rappresentando un esempio di buon giornalismo il New York Times ed il Guardian , El Pais e Le Monde , fanno parte del sistema, Wikileaks no: e da questo discendono buona parte delle sue disgrazie.
Le cronache giornalistiche a margine dei cablogrammi di Wikileaks di questa settimana sono incredibili, e avrebbero bisogno di Carlo Emilio Gadda per descriverle. Ieri per esempio il sito web del Corriere della Sera raccontava che Julian Assange, ormai da tutti eletto a stupratore seriale e ricercato internazionale, si nascondeva in Gran Bretagna, che le autorità sapevano dove fosse e che le teste di cuoio stavano per tentare un blitz per arrestarlo. Le teste di cuoio scatenate per un preservativo: mancano solo gli ostaggi in banca per completare la scena di un film d’azione di quart’ordine.
Così la Internet che viene fuori dalla vicenda dei cablogrammi di Wikileaks è una Internet più triste di quello che forse sarebbe stato lecito pensare: quando il gioco si fa duro, i duri spengono Internet, in occidente esattamente come in Cina . Stessi metodi, stesso cipiglio. A poco contano i volonterosi mirror del sito abbattuto, i DNS recuperati, gli annunciati boicottaggi di Amazon e Paypal: quello che conta è che informazioni vere che nessuno è in condizione di smentire raggiungono milioni di cittadini in tutto il mondo, fuori dal filtro solito dei media, e per una volta l’ambasciator, in spregio al famoso detto, rischia di portar pena .
Il giudice La Barbera del Tribunale di Agrigento qualche giorno fa ha assolto il giornalista Fabrizio Gatti, che rischiava un anno di reclusione per aver dichiarato false generalità allo scopo di accedere al Centro temporaneo di permanenza per gli immigrati a Lampedusa per poi scriverne un articolo su L’Espresso . Il magistrato ha sancito la predominanza dell’articolo 21 della Costituzione che tutela il diritto di cronaca e di espressione non solo della stampa ma anche dei singoli cittadini.
Si tratta di una buona notizia ma resta la curiosità di capire cosa sarebbe accaduto se al posto del giornalista professionista Gatti ci fosse stato un semplice cittadino, e se al posto de L’Espresso ci fosse stato un blog letto da 10 persone. La Rete oggi non chiede generalità, titoli o cartellini a chi decide di esprimere il proprio pensiero, e le discussioni USA di questi giorni sul fatto che Wikileaks debba o non debba essere considerato parte integrante del sistema dei media raccontano la grande ansia di controllo di un mondo invecchiato. Le notizie sono vere o sono false e discernere le une dalle altre (in Rete come sui media) spesso è la vera complicazione. Quelle di Wikileaks sono vere, e per noi lettori tanto basta. Tutto il resto è uno spiacevole contorno molto potente al quale oggi, per una volta, non è chiaro se la rete Internet sarà in grado di far fronte.
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