Non ci sono troppe ragioni per stupirsi riguardo alle vicende dei giorni scorsi in Commissione Giustizia, dove gli emendamenti di alcuni parlamentari di entrambi gli schieramenti che chiedevano fosse rivisto l’obbligo di rettifica per i blogger, tema già molte molte dibattuto sia in Rete che fuori e che Punto Informatico segue con attenzione da sempre. Ignoro le ragioni per cui Giulia Bongiorno, presidente della Commissione, abbia deciso di ritenere inammissibili le richieste, apparentemente di assoluto buonsenso, di Roberto Cassinelli (PDL) e di Roberto Zaccaria (PD): quello che però mi pare abbastanza evidente è che i toni di commento della vicenda siano piuttosto fuori dalla righe.
Detesto fare l’avvocato del diavolo, ma a margine di un articolo di legge scemo e un po’ intimidatorio, per altro scemo e intimidatorio meno di altri che abbiamo dovuto registrare in questi anni, Michele Meta (capogruppo in Commissione Telecomunicazioni per il PD) ha dichiarato che tale articolo “rischia di determinare un freno insopportabile alla libertà di espressione e alla creatività di migliaia di blogger. Vista l’immediata e gratuita fruibilità di internet, i blog fanno del web una piazza virtuale aperta, di confronto e arricchimento collettivo, sfidando spesso i grandi media pieni di risorse, sulla qualità e obiettività dell’informazione”.
Una dichiarazione un po’ sopra le righe, specie se a proporcela è il rappresentante di un partito che in questi anni è stato lui, per primo, “freno insopportabile” allo sviluppo delle reti in Italia in numerose note occasioni. Fu per esempio una legge del centro-sinistra nel 2001 a generare la prima dolosa confusione fra pagine web e siti editoriali, piccola bomba semantica capace, come si vede, di creare concreti disastri anche a distanza di un decennio.
Ad occhio e croce il 90 per cento della discesa in campo di questi giorni da parte della politica contro l’obbligo di rettifica per i blog è del tipo ben interpretato dalla dichiarazione del PD: propaganda antigovernativa con il vestitino della festa su un tema di cui, tranne in rari casi, non interessa niente a nessuno. Del resto raccontare se stessi come gli indomiti cavalieri della libertà è sempre uno sport discretamente apprezzato a tutte le latitudini.
Anche il punto di vista di Antonio di Pietro in quanto a toni non scherza: “La Rete è uno degli ultimi rifugi delle voci libere e della libera informazione. Consapevoli dell’importanza rappresentata dal web continueremo la nostra battaglia contro il ddl bavaglio e, in particolare, contro l’obbligo per i blogger a pubblicare la rettifica entro 48 ore. È una battaglia in difesa della democrazia e della giustizia che porteremo avanti senza se e senza ma”. La differenza concreta fra questi due differenti sprechi di aggettivi e frasi fatte è che il leader dell’IDV, blogger egli stesso, ha almeno avuto in questi anni comportamenti conseguenti su simili temi, pur partendo lui stesso da posizioni semplificate e populiste, figlie di quella interpretazione ideologica della rete che va da Beppe Grillo a Casaleggio (o viceversa).
Fra il disinteresse dei più e la strumentalizzazione di qualcuno,la terza via per incidere sulla solita tendenza italiana a legiferare “contro” Internet è ancora una volta quella della mobilitazione dal basso. Guido Scorza ha preparato una lettera aperta a Giulia Bongiorno, che molti utenti della Rete stanno sottoscrivendo in queste ore. Sono quindici anni che firmiamo petizioni in Rete, spesso su temi molto importanti: l’unica sensibile differenza fra le petizioni di oggi e quelle di qualche anno fa è che oggi i primi firmatari sono talvolta persone che hanno più facile accesso ai mezzi di informazione di massa. Così le stesse campagne che un decennio fa generavano migliaia di firme in Rete e un silenzio assoluto fuori, oggi hanno la capacità di uscire occasionalmente da Internet per raggiungere le pagine dei quotidiani e magari provocare qualche flebile reazione politica o una innocua interrogazione parlamentare.
La grande debolezza di simili strumenti di opposizione, come è noto, è che si tratta di presidi a costo zero, il cui valore in termini di “mobilitazione politica” è estremamente basso. I numeri stessi sono poi facilmente adulterabili, e la somma di queste due caratteristiche trasforma la Rete in una sorta di suk della politica dove chiunque può teoricamente costruire facile consenso su qualsiasi tema.
E allora come se ne esce? La risposta è contemporaneamente semplice e complicatissima: le grandi masse di utenti della Rete, offese dall’orribile legiferare contro la Rete, dovrebbero semplicemente mandare in Parlamento propri rappresentanti che conoscano ed apprezzino Internet. Ce ne sono moltissimi in ogni schieramento e potrei perfino iniziare qui di seguito un folto elenco nome per nome. Solo mandando a casa Giulia Bongiorno e la schiera di illetterati digitali che abitano il nostro Parlamento si incide su una questione che in Italia è ormai da anni declinata nell’unica sterile contrapposizione fra una politica che ignora Internet ed una massa sempre più ampia di utenti di Internet che si indignano a colpi di click.
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