da New York – In questi giorni a New York è possibile visitare fra le varie esposizioni del Moma una mostra intitolata Workspheres che esplora i rapporti fra il design e le nuove tecnologie. Il viaggio parte da una constatazione banale: i computer hanno radicalmente mutato negli ultimi 20 anni il modo in cui lavoriamo, trasformando sia le modalità che i luoghi in cui gli esseri umani passano il 70% del proprio tempo.
E ‘ in atto quindi un ripensamento anche estetico, oltre che funzionale, di tutti gli ambienti che in genere riserviamo al lavoro, fino a qualche anno fa assai ben identificabili (l’ufficio, la fabbrica) ed oggi invece assai meno caratterizzati dopo l’avvento non solo dell’utilizzo dei terminali elettronici ma anche e soprattutto del lavoro a distanza, sia quello casalingo che quello “nomade”.
Entrambe queste due nuove modalità lavorative sono state rese possibili dallo sviluppo di Internet e dai moderni strumenti di comunicazione e secondo alcuni esperti saranno destinate nel prossimo futuro a riguardare un sempre maggior numero di persone in tutto il mondo. Si tratta di una svolta che, nonostante abbia visto gli albori più di vent’anni fa, appare in gran parte ancora da concretizzare: il mondo e il lavoro sono cambiati velocemente, l’adattamento fisico ed estetico a questi cambiamenti è come se fosse invece rimasto indietro.
Forse è per questa ragione che l’aspetto più interessante della esposizione sono le facce dei visitatori, in parte incuriositi in parte increduli di fronte a proposte spesso dal contenuto estremo e claustrofobico molto importante. Come diversamente definire ad esempio la sciarpa tecnologica che incorpora ai suoi estremi un piccolo monitor, una tastiera e un telefono o il “divano-computer del netsurfer” proposto da Teppo Asikainenen e Ikka Terho (vedi foto), un incrocio fra la postazione di comando di una navetta interstellare e una chaise longue di Le Corbusier?
Sono soluzioni che nessuno vorrebbe sperimentare, tutte caratterizzate da una vera e propria invasione della tecnologia dentro gli strumenti della nostra vita quotidiana siano essi un tavolo, un divano o perfino il letto matrimoniale, anch’esso tramutabile in un “soft-office” attraverso una dotazione di monitor e tastiere incorporate fino dentro il cuscino. Una invasione che fatichiamo non poco ad accettare.
Eppure oggi si calcola che circa 12 dei 131 milioni di americani che costituiscono la forza lavoro siano lavoratori con “sistemazioni alternative”: dodici milioni di persone che al mattino non prendono l’auto né la metropolitana che non timbrano cartellini dalle 9 alle 5, che non contribuiscono ad aumentare gli ingorghi, l’inquinamento e il consumo di energia. Per tutti costoro, e per quanti nei prossimi anni faranno scelte simili in USA come altrove, è oggi necessario ripensare quasi tutto.
Certo, la rivisitazione dei luoghi di lavoro passa anche attraverso una elaborazione estetica che in casi come quelli esposti a Workspheres è volutamente estrema e fine a sé stessa. Eppure la mostra assolve il suo compito principale che è quello di “porre il problema”. Così oggi accanto alla necessità di ripensare l’architettura dei posti di lavoro all’interno dei normali uffici (i cubicoli americani che tutti conosciamo davvero non sono un esempio di confort ed ergonomia lavorativa) si affaccia la necessità di interrogarsi su quale sia la maniera migliore di lavorare da casa (un ambiente isolato anche esteticamente dal resto della casa o una integrazione ampia con essa?) e quale integrazione sia oggi possibile fra abbigliamento e tecnologia (il vasto spazio di ricerca sui “computer
indossabili” tanto caro agli studiosi del MIT) nel momento in cui la miniaturizzazione e la possibilità di utilizzo di periferiche wireless rendono il lavoro trasportabile in ogni angolo del pianeta.
Si tratta di un cammino appena iniziato e le facce incredule dei visitatori di Workspheres oggi sono la maniera migliore per descrivere quanto sia ancora distante la meta prefissata: una integrazione fra tecnologia e ambiente (lavorativo ma non solo) che migliori la nostra vita senza complicarla, che renda semplici le cose complicate lasciando, possibilmente, semplici quelle semplici.