Documenti pubblici ingabbiati da password e credenziali di accesso, documenti caduti in pubblico dominio su cui hanno apposto il proprio marchio i responsabili della digitalizzazione: gli strumenti che dovrebbero democratizzare l’accesso e la partecipazione alla cultura alzano palizzate alla fruizione da parte dl cittadino. Ma c’è chi negli Stati Uniti ha deciso di non piegarsi a questa dinamica e invita ad infiltrarsi negli archivi ad accesso limitato, a liberare la cultura e a condividerla online.
Impossibile sviluppare uno spirito critico nei confronti della propria posizione nella società civile se lo stato non è trasparente , se non concede a tutti i cittadini la possibilità di ragionare sui documenti che emette, sulle decisioni che prende, sui dibattiti che si dipanano in seno agli organi di governo. Impossibile prendere parte al fluire della cultura se la ricerca rimane confinata entro le mura accademiche , protetta da password e credenziali di accesso. L’ostacolo alla partecipazione sono gli stati che appongono il copyright sulle proprie leggi , sono gli steccati che concedono un pertugio per i soli addetti ai lavori , sono gli attori privati ai quali vengono affidate le opere di manutenzione e di digitalizzazione dei documenti: una volta passati allo scanner per essere depositati online, sui documenti che dovrebbero appartenere al pubblico dominio, sui documenti emessi dallo stato a servizio dei cittadini, sui documenti che dovrebbero alimentare la ricerca e fungere da mattoni per edificare la cultura viene stampigliato il simbolo del copyright .
Era già accaduto con i documenti emessi dal Parlamento del Regno Unito, digitalizzati da ProQuest e messi disposizione con tutti i diritti riservati , accade tuttora per molte università, la cui opera di ricerca sfocia in costose pubblicazioni che gli stessi atenei a volte si ritrovano a non poter mettere a disposizione in rete. Sta accadendo con i documenti del Government Accountability Office statunitense ( GAO ).
Gli archivisti del GAO dal 1915 si sono preoccupati di tenere traccia degli atti del Congresso, di imprimere in maniera indelebile i percorsi del legislatore, di registrare la storia del quadro normativo statunitense, dalle proposte di legge, passando per gli emendamenti per arrivare alla conversione in legge. Uno sforzo improntato alla trasparenza , uno sforzo per garantire ai cittadini il libero accesso ai documenti che hanno fatto la storia del paese in cui vivono.
Ma qualcosa è cambiato, nel momento in cui si è dato il via alla digitalizzazione, una trasformazione mirata ad ampliare la disponibilità dei documenti e a facilitarne l’accesso attraverso la rete, una trasformazione che ha dato origine all’effetto contrario. Il GOA ha incaricato Thomson West di digitalizzare gratuitamente questi anni di storia archiviata, in cambio della concessione di gestire a proprio piacimento i documenti digitalizzati per rientrare dei costi dell’opera di scansione. Ora l’azienda impone un lucchetto ai documenti che ha reso disponibili in formato digitale.
Thomas West ha messo sotto password i documenti che ha digitalizzato per il GAO, lo stesso Government Accountability Office non può accedere all’archivio digitale se non passando per un account sul sito dell’azienda. Il resto delle istituzioni non può accedere ai documenti e i cittadini che ne facciano richiesta devono rivolgersi al GAO, il quale accede ai documenti e consegna loro delle copie cartacee in cambio di 20 centesimi di dollaro per pagina stampata.
Oltre a impedire il deterioramento delle testimonianze cartacee, la digitalizzazione non doveva essere uno strumento per svincolare i documenti dalla fisicità? Non avrebbe dovuto contribuire a universalizzare l’accesso? Dove non arrivano le istituzioni arrivano però gli attori della rete come Erik Ringmar, docente dell’Università statale Chiao Tung, a Taiwan. Quello dell’appropriazione digitale di documenti di pubblico dominio è un meccanismo che non piace al professor Erik Ringmar , capofila del Movimento per la liberazione dei vecchi documenti : per ribellarsi alla politica della cultura per pochi, guadagna l’accesso ai documenti sotto chiave e posta tutto il materiale finora inaccessibile su The Internet Archive , nella sezione che ambisce a diventare una biblioteca universale di libri scansionati e caduti in pubblico dominio. In questo modo i netizen possono partecipare, attingere alla cultura e rielaborarla, possono effettuare ricerche, sono incoraggiati a conoscere e a sviluppare un senso critico nei confronti del mondo che li circonda.
Così si muove Ringmar: “Penetro nei siti a cui è vietato l’accesso, scarico i documenti a cui sono interessato, poi uso il programma open source che preferisco per l’editing di immagini, per rimuovere da ogni pagina le dichiarazioni relative al diritto d’autore. Poi assemblo le pagine in un unico file pdf e le carico su The Internet Archive, dove il documento diverrà universalmente accessibile”.
La ricetta di Ringmar? Utilizzate le vostre credenziali, le password che vi consentono di accedere a sezioni riservate del sito dell’istituzione per cui lavorate, al sito della vostra università o alle biblioteche, a fonti a cui non vi viene sbarrato l’accesso. Oppure smanettate con codici e vulnerabilità, tentate di penetrare nei siti che ospitano sotto chiave i documenti che dovrebbero essere accessibili a tutti. Poi scaricate, stampate, scansionate, e ancora rimuovete i simboli che riconducono al detentore dei diritti: liberate i documenti e restituiteli al pubblico .
“È un lavoro che porta via del tempo – spiega Ringmar – ma è una causa per cui vale la pena di lottare”. Naturalmente c’è da attendersi la rappresaglia legale da parte di coloro che hanno lucchettato i documenti: “Sono preparato ad affrontare le conseguenze legali delle mie azioni – ha annunciato Ringmar – il diritto ad accedere all’informazione è una nuova frontiera dei diritti civili”. Una frontiera che se il cittadino non saprà riconquistarsi rischia di pesare negativamente sulla sua partecipazione alla società democratica.
Gaia Bottà