Anche se un indirizzo IP può essere ricondotto ad una specifica abitazione, al dispositivo che la innerva di connettività, non è possibile associare un indirizzo IP al responsabile di certe azioni compiute in Rete e giudicate illegali. L’indirizzo IP non identifica un colpevole, e dunque non può essere utilizzato come unico indizio per individuare colui che abbia commesso delle violazioni del diritto d’autore.
È questa la conclusione cui è giunta la giudice Ursula Ungaro, incaricata di valutare uno degli innumerevoli casi sollevati da Malibu Media, casa di produzione di film a luci rosse nota soprattutto per l’aggressività con combatte le violazioni del copyright perpetrate attraverso la Rete. Anche in questo frangente la casa di produzione, dopo aver rastrellato le reti di file sharing, ha individuato un indirizzo IP che si è intrattenuto nella condivisione di una delle sue opere. Ha così sporto denuncia nei confronti dell’indirizzo IP 174.61.81.171: afferente all’utenza di Comcast, è stato localizzato dall’investigatore della casa di produzione come un’utenza residenziale del Southern District della Florida. Un’area, spiegava Malibu Media, per cui è possibile identificare con precisione l’intestatario dell’abbonamento, e quindi rivolgersi alla corretta giurisdizione .
Ma sarebbe stato necessario l’intervento di Comcast per dare un nome all’indirizzo IP: un intervento che i fornitori di connettività hanno spesso rifiutato a Malibu Media, un intervento che il giudice non ha autorizzato , chiudendo il caso. L’accusa, secondo Ungaro, non ha offerto prove valide per giustificare l’identificazione, in quanto identificare l’intestatario di un abbonamento non significa identificare il responsabile di una violazione . “Non c’è nulla che collega la localizzazione dell’indirizzo IP con l’identità della persona che ha di fatto scaricato e visto i video citati dall’accusa” ha spiegato Ungaro, che ha opposto questa motivazione nel rigettare di procedere con altri due casi sollevati dalla casa di produzione.
La decisione presa dalla giudice Ungaro ricalca quella emessa da un giudice di New York, sempre nei confronti di Malibu Media: anche in quel caso si stabiliva che un indirizzo IP non fosse sufficiente ad identificare un colpevole, ma fornisse semplici indizi riguardo all’area in cui si è consumata la violazione. Membri della famiglia, ospiti o approfittatori di reti WiFi poco protette: il ventaglio dei sospettati sarebbe troppo folto per ritenere efficace questo modo di procedere .
Gaia Bottà