“Si tratta di una questione morale”: così il ministro della Cultura del Regno Unito ha giustificato il cambio di fronte del governo che, sfidando pareri di autorevoli esperti e dati racimolati presso l’industria, ha reso noto di voler supportare l’estensione della durata del copyright sulle performance dagli attuali 50 anni ai 70 anni.
Nei palazzi del Regno Unito fermenta da tempo l’intenzione di estendere la copertura del diritto d’autore per coloro che hanno interpretato brani altrui: si meditava di riconoscere anche ai performer una tutela dei diritti più uniforme rispetto a quella degli autori, e più uniforme rispetto a quella garantita negli Stati Uniti. Per questo motivo si ventilava di stiracchiare la legge che regola il copyright, per questo motivo le autorità britanniche avevano commissionato un’indagine che esplorasse le implicazioni, i rischi e le opportunità di una nuova politica di tutela per gli interpreti.
Ne era emerso il Gowers review , un documento nel quale, analizzate le esigenze di tutti gli attori in campo, indagate le implicazioni economiche dell’estensione dei diritti dei performer sulle loro interpretazioni, si sconsigliava in maniera netta l’allungamento di 20 anni della durata del copyright. Inutile, si spiegava nel Report, prolungare i diritti di interpreti le cui performance, salvo eccezioni, restano impresse in supporti obsoleti e negletti nelle mansarde di appassionati di musica dei tempi che furono. Un prolungamento della durata delle tutele favorirebbe esclusivamente le celebrità che hanno altre fonti di guadagno e le etichette alle quali sono legate. Nel contempo assottiglierebbe il flusso di cultura che cade in pubblico dominio e rischierebbe di spianare la strada a un’estensione del diritto d’autore che vada ad investire altre categorie di artisti.
Ma il governo del Regno Unito ha cambiato atteggiamento: l’impatto dell’indagine statistica di Gowers sembra impallidire se confrontata con le voci reali e accorate degli artisti. A reclamare l’estensione delle tutele accordate nei loro confronti sono una pletora di musicisti seminoti: in un video recentemente indirizzato al governo del Regno Unito hanno implorato che venissero loro riconosciuti diritti che tutelano gli autori dei brani che interpretano. Ma a premere per l’estensione della durata del copyright sulle interpretazioni sono altresì gli autori che sono interpreti di sé stessi o di brani scritti da membri della band a cui sono storicamente associati: a farsi portabandiera di questa battaglia sono autori e interpreti come Cliff Richard o Roger Daltrey, vocalist degli Who. Le registrazioni delle opere composte da loro in prima persona, le performance con cui hanno reso popolari brani scritti da altri, stanno per cadere in pubblico dominio: gli artisti che hanno interpretato opere negli anni 60 perderanno a partire dal prossimo decennio il diritto ad essere retribuiti per gli usi che verranno fatti di quelle singole esecuzioni.
Oltre alle pressioni messe in atto dagli artisti che hanno costruito il patrimonio musicale del Regno Unito c’è l’ orientamento dell’Europa : prima la Commissione Europea capitanata da Charlie McCreevy, poi il Parlamento Europeo, hanno sostenuto la necessità di ricompensare adeguatamente gli interpreti, corrispondendo loro royalty per 95 anni dalla registrazione della performance. Sfidando il parere di esperti e le mobilitazioni dei consumatori , le autorità europee vorrebbero riequilibrare il diritto dei cittadini a fruire di un commons condiviso di cultura e il diritto degli artisti a proteggere la propria opera, vorrebbero riconoscere agli esecutori delle opere il diritto ad una vecchiaia più serena. Le stime stilate dalle autorità non si sovrappongono a quelle delle organizzazioni a tutela dei diritti del cittadino: se Open Rights Group prospetta compensazioni che oscillerebbero tra i 26,79 euro e i 50 centesimi di euro l’anno, a fronte di ricche compensazioni per le etichette, la Commissione ha calcolato che l’estensione frutterebbe ai performer tra i 150 e i 2000 euro l’anno per 95 anni dall’esecuzione.
Per questo motivo il ministro della Cultura del Regno Unito ha espresso l’intenzione di “considerare gli aspetti di un’estensione della durata del copyright per i performer rispetto agli attuali 50 anni”. Si tratterebbe di “un’estensione che corrisponda in maniera più adeguata con l’aspettativa di vita del performer, circa 70 anni, dato che molte persone hanno dato il meglio della propria carriera tra i 20 e 30 anni”. L’ industria della musica ringrazia : “Il copyright stimola gli investimenti nei talenti musicali e incoraggia l’innovazione – spiegano dai vertici della British Phonographic Industry – migliaia di artisti, migliaia di etichette e tutti gli estimatori britannici della musica trarranno beneficio da termini più equi di durata del copyright”.
Gaia Bottà