Il commissario Charlie McCreevy ha sostenuto la proposta di estensione del diritto d’autore sulle performance, giustificandola con l’esigenza di garantire una serena vecchiaia agli anziani interpreti di musica. La maggior parte dei canuti canterini e musicisti potrà contare su un bottino di 25 euro l’anno: potrebbero non bastare nemmeno per accontentare il nipotino esigente il giorno del proprio compleanno.
È uno studio di Open Rights Group a sezionare l’idea della Commissione Europea di estendere i diritti degli interpreti: depositata come parere nell’ambito della consultazione pubblica indetta lo scorso mese, l’analisi dell’associazione sbaraglia le argomentazioni di McCreevy. La Commissione aveva interpellato esperti e luminari, aveva scremato i risultati emersi, aveva stimato che l’anziano performer avrebbe potuto arrotondare la pensione guadagnando royalty per un gruzzoletto cospicuo: allietando pomeriggi televisivi domenicali, scuotendo i frequentatori di dancing e balere avrebbero potuto racimolare tra i 150 e i 2000 euro l’anno per 95 anni dall’esecuzione.
Ma Open Rights Group discorda: l’80 per cento dei performer potrebbe contare su un massimo di 26,79 euro e su un minimo di 50 centesimi di euro l’anno . La motivazione della divergenza fra le stime? L’organizzazione sottolinea che il 90 per cento delle royalty raccolte va a rimpinguare le casse delle etichette, che il 9 per cento del denaro raccolto può arricchire la vecchiaia del 20 per cento dei performer, quelli più noti, mentre l’ 1 per cento sia da spartire fra la massa degli sconosciuti che per lavoro o per passione abbiano preso in prestito e reinventato brani altrui.
Ma non è solo una questione di welfare : Open Rights Group ripercorre le analisi svolte dagli esperti per conto della Commissione e abbatte anche l’altro pilastro della tesi di McCreevy: prolungare da 50 a 95 anni la possibilità di collezionare royalty sull’interpretazione dei brani non rappresenta un toccasana per il mercato . Open Rights Group ripesca lo studio condotto da Bernt Hugenholtz, a capo dell’ Instituut voor Informatierecht ( IViR ), dipartimento dell’Università di Amsterdam che si occupa di Internet, diritto e mercato: commissionato dalla stessa Direzione Generale Mercato Interno della Commissione, l’analisi non è stata presa in considerazione nonostante offrisse dei dati che avrebbero potuto mettere in discussione quanto sosteneva McCreevy. Hugenholtz, al pari del Gowers Report stilato negli scorsi anni nel Regno Unito, raccoglieva delle prove con cui dimostrava che l’estensione dei diritti dei performer non avrebbe potuto innescare dei circuiti economici capaci di alimentare un mercato più equo per i suoi attori: anzi, i costi aggiuntivi si sarebbero riversati sul consumatore, spegnendo l’entusiasmo nei confronti dell’acquisto di musica. “È logicamente impossibile – chiosano da Open Rights Group – garantire dei benefici ai produttori di musica e nel contempo non creare dei costi per i consumatori”.
Nessun vantaggio per i consumatori, nessun vantaggio per la maggior parte degli artisti attempati: Open Rights Group sottolinea come l’estensione dei diritti rischi di avere un impatto non indifferente anche sul futuro delle giovani leve. “Siamo fermamente convinti del fatto che lo scopo, per definizione, della proprietà intellettuale sia quello di incentivare la creazione”: rosicchiare il calderone del pubblico dominio mina la creatività dei giovani artisti. La Commissione Europea, con la proposta McCreevy, sembra dunque guardare al futuro con scarsa lungimiranza: i potenziali giovani artisti, in assenza di materia prima su cui lavorare, potrebbero mancare di mettersi al servizio come ingranaggi dell’attuale sistema dell’industria dei contenuti.
Gaia Bottà