I cittadini della Rete della Corea del Sud potranno tornare ad esprimere la propria opinione senza denunciare la propria identità: l’obbligo a registrarsi ai servizi online con le proprie generalità è stato ritenuto incostituzionale.
La discussa legge coreana era stata approvata nel 2007: alle piattaforme che potessero vantare più di 100mila visite al giorno era stato imposto di sottoporre i propri utenti ad una schedatura accurata che assicurasse la possibilità di rintracciare gli utenti associandoli a un nome reale e al corrispettivo locale del codice fiscale. L’obiettivo era quello di contenere la diffusione di indiscrezioni non verificabili e di messaggi offensivi o sobillatori, disponendo di riferimenti diretti che consentissero di individuare immediatamente gli autori delle sortite che risultassero sgradite in caso di reati, denunce o azioni legali. Con l’effetto, non trascurabile, di responsabilizzare i cittadini, costretti ad esporsi senza maschere o a rassegnarsi al silenzio.
Le critiche rispetto alla legge non erano mancate: Google aveva preso posizione riducendo la versione coreana di YouTube a una TV. Poiché la schedatura imposta dalle autorità locali non sarebbe stata compatibile con i principi dell’azienda, Google aveva preferito indirizzare su altre localizzazioni della piattaforma gli utenti coreani votati alla partecipazione: su diverse versioni del portale avrebbero potuto manifestare ogni aspetto del proprio pensiero e della propria personalità senza necessariamente etichettarli con i propri dati anagrafici.
Nel 2010, a tre anni dall’entrata in vigore della disposizione, l’editore Internet Media Today insieme ad altri soggetti avevano chiesto una verifica rispetto alla costituzionalità della legge. Gli otto giudici della Corte Costituzionale hanno ora formulato il loro parere , all’unanimità: “Il meccanismo non sembra avere garantito dei benefici per i cittadini”. La corte spiega che, nonostante il provvedimento sia stato applicato da tutti gli operatori, non si è potuta apprezzare una diminuzione dei contenuti controversi.
Il tutto sarebbe da ricondurre all’ inefficacia della legge , capace solo di penalizzare gli operatori locali dei servizi di condivisione. Proprio come aveva suggerito YouTube, coloro che hanno voluto dare sfogo a manifestazioni del pensiero che avrebbero potuto innescare denunce o mobilitare le forze dell’ordine si sono riversati su siti esteri , presso cui l’identificazione non è obbligatoria. A ciò sono stati costretti anche coloro che, non essendo dotati del codice identificativo assegnato a ciascun cittadino coreano, avrebbero voluto manifestare il proprio pensiero presso i siti localizzati in Corea.
Le procedure di schedatura, inoltre, secondo i giudici rappresentano una minaccia per la riservatezza degli utenti : come già osservato dalle autorità locali nel 2011, a seguito di una massiccia operazione di cracking , grandi quantità di dati personali costituiscono una preda ambita, e una responsabilità onerosa in termini di tutela della sicurezza.
“La manifestazione del pensiero protetta dall’anonimato o da pseudonimi permette di esprimere critiche rispetto all’opinione della maggioranza senza farsi schiacciare da pressioni esterne” ha spiegato la Corte Costituzionale coreana. “Anche se l’anonimato online presenta effetti collaterali – si può leggere nella decisione – deve essere protetto per il suo valore costituzionale”. Tanto più che la norma coreana prevede una grave compressione dei diritti del cittadino senza nemmeno essere risolutiva .
La legge è stata dunque giudicata incostituzionale: in Corea del Sud non sarà più necessario identificarsi prima di manifestare il proprio pensiero online. Esistono altri strumenti utili a rintracciare i cittadini della Rete, strumenti a disposizione delle sole forze dell’ordine, da imbracciare solo in caso di necessità.
Gaia Bottà