Ed è così che nel 2020, in piena crisi Coronavirus, l’Italia scopre lo smart working. Che sia una scoperta in tutto e per tutto, peraltro come semplice situazione di emergenza destinata presumibilmente a scomparire con la risacca del dopo-infezione, diventa chiaro nel momento in cui debba arrivare uno specifico intervento normativo per abilitare questa opzione. Come se fosse una “soluzione B”, come se fosse un qualcosa di nuovo, inesplorato e dalle risultanze ignote.
Così non è e mentre per qualcuno si tratta della classica scoperta dell’acqua calda, per molte aziende è questo un esperimento che potrebbe aprire gli occhi al cospetto di un’opportunità che ha innegabili vantaggi. Ma non siamo pronti e bisogna prenderne atto.
Lo smart working ai tempi del Coronavirus
Alla questione normativa si mette una pezza con un intervento di urgenza che toglie le castagne dal fuoco alle aziende: il lavoro “smart” può ora essere attivato seduta stante senza alcun previo accordo individuale e senza passaggi burocratici ostativi. Questo è quel che insegna l’emergenza e che occorrerà prendere presto in considerazione: servono standard normativi che consentano di mettere a punto una funzione in smart working in pochi minuti, come semplice “switch” tra una modalità e un’altra, se non come vera e propria soluzione di continuità tra l’una e l’altra. Varie multinazionali hanno già intrapreso modalità miste di collaborazione, ma la situazione è molto meno evoluta all’interno del ricco tessuto delle PMI. Qui il problema sembra essere culturale prima ancora che normativo e organizzativo.
Il lavoratore
Quanti lavoratori sono pronti ad un lavoro “smart”? L’abitazione è pronta dal punto di vista hardware e della connettività? Si ha a disposizione un locale presso cui isolarsi, creare l’ecosistema ideale per il lavoro e gestire il proprio tempo nel modo opportuno per il raggiungimento del risultato? Si ha la capacità di operare senza le dinamiche dell’ufficio, andando oltre i limiti dell’orario fisso e con pari capacità di concentrazione?
Ci si sente pronti (tecnicamente, culturalmente e dal punto di vista operativo) ad un lavoro diverso, con nuovi paradigmi e con potenzialità superiori – ma con regole nuove? Sia chiaro: lo chiamano “lavoro agile“, ma di agile c’è ben poco. Anzi. Non si cada nel tranello, perché su questo fronte aziende e istituzioni ci giocano da troppo tempo. Per il lavoratore è questa una sfida importante, con grandi costi e grandi potenziali vantaggi. Non ci si improvvisa.
L’azienda
L’azienda, da parte sua, è in grado di elevare il rapporto con il lavoratore da una bollatrice oraria a rapporto fiduciario, giudicando l’operato per i risultati conseguiti e non per le ore impiegate? Ha in essere gli strumenti di comunicazione necessari per consentire l’interscambio di messaggi, file e flussi di lavoro? Nel tempo sono stati sviluppato idonei protocolli di sicurezza che consentano una gestione sicura di posta elettronica, password, file e proprietà intellettuali dell’azienda?
Pensare allo smart working non deve essere soltanto un esercizio applicativo per cogliere le meglio sfumature della Legge 22 maggio 2017 n. 81 (“Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato“). In ballo c’è molto di più, a partire da un modello nuovo di azienda e di rapporto tra lavoratore e impresa. Dopo l’emergenza si dovrà ripartire da qui e tutti coloro i quali avranno fatto questa sperimentazione improvvisata avranno ben in mente quali siano le necessità reali avvertite e quali i benefici concessi. Si potrà discuterne con maggior consapevolezza. Evviva.
Al termine di questa emergenza difficilmente avremo dati compiuti sul numero di lavoratori “smart” in questa parentesi e dunque non è facile capire quante postazioni di lavoro “agili” saranno create in conseguenza diretta del Coronavirus. Tutto quel che si può immaginare (e auspicare) è che questo incontro forzato tra le aziende e il telelavoro possa esplodere nuove ambizioni. Del resto la capacità di adattamento di una impresa dovrà essere misurata in futuro anche su questi dettagli fondamentali: il dislocamento sul territorio, la capacità di riorganizzare la propria rete senza subire colli di bottiglia localizzati, la possibilità di riorganizzare la forza lavoro, la possibilità di applicare con rapidità nuove modalità produttive.
Il telelavoro non è quindi più un semplice optional: è valore, in tutto e per tutto.
Il futuro
Smart working e telelavoro sono stati a lungo tempo considerati un elemento improprio per la realtà italiana. Troppi gli ostacoli normativi, troppo scarsa la volontà delle aziende di fare pressioni in tal senso. Il Coronavirus piomba su questa situazione obbligando le parti a guardarsi e a capirsi: o telelavoro, o l’abbandono ad un tempo imprevedibile di quarantene e sospensione dei flussi di lavoro. Il danno, alla fine, sarà nell’ordine dei milioni di dollari e la Borsa nella giornata di oggi ha ben compreso questo rischio affossando un listino che continuava a crescere senza motivazioni apparenti. I contagi quotidiani obbligano tutti a fare i conti con la realtà, sbattendoci in faccia le deviazioni del giornalismo, i sensazionalismi sterili dei social network, le difficoltà dell’informazione istituzionale e ora anche gli ingranaggi bloccati dell’impresa.
Lo smart working c’è per restare, ma ad emergenza passata occorrerà seriamente mettere mano a questo strumento per renderlo un’opzione libera, quotidiana e integrata nei comuni rapporti di lavoro. Una possibilità di stimolo alla famiglia, al lavoro da remoto, alla liberazione dall’orario fisso, alla responsabilizzazione, alla meritocrazia ed alla creazione di una nuova dimensione professionale. Oltre il “giacca e cravatta” c’è di più, ma ognuno dovrà fare la propria parte.
Che si apra il laboratorio: c’è molto da fare in proposito.