Torniamo per un momento a quel marzo 2020 che ha segnato l’inizio dell’incubo. Sono ormai trascorsi quasi due anni e si fatica a crederlo. Nelle settimane precedenti, qualche segnalazione di un virus minaccioso identificato a Wuhan, nel cuore distante della Cina, da etichettare come l’ennesima insidia lontana e non in grado di toccarci. Una notizia da relegare alla terza o quarta pagina dei quotidiani: se la vedano loro. Poi i primi contagi a noi più vicini e l’innalzamento della soglia di attenzione, la prima scintilla di un confronto tra quelli che tutto aperto e quelli che invece meglio tutto chiuso, non si sa mai che avrebbe poi preso una piega strana, inattesa, fino all’odierna accesa diatriba No Vax vs Pro Vax. Di lì a poco il precipitare della situazione: il primo malato a casa nostra, la chiusura improvvisa di tutto il paese e le conferenze stampa da seguire in diretta TV, l’inno cantato dai balconi, i lockdown, l’autocertificazione (ve la ricordate?) e la pizza fatta in casa. Il tutto raccontato in modo distribuito e capillare (decentralizzato per usare un termine tanto in voga) attraverso il diario condiviso dei social network, lo stesso a cui oggi possiamo guardare per rispondere ad alcune domande solo all’apparenza banali. Quanto è cambiato da allora? Come siamo cambiati noi? In che modo la pandemia da COVID-19 ha cambiato la nostra quotidianità, il modo di lavorare, studiare e di approcciarci agli altri (o a noi stessi)? Ancora, come è via via cambiato (o evoluto) il nostro rapporto con la più importante crisi sanitaria globale dei tempi moderni?
Ehi! Guardami! Sono positivo al COVID!
Dando un’occhiata a quanto pubblicato sulle bacheche, al netto delle scaramucce tra coloro stoicamente ancora impegnati nello scontro tra Sì Green Pass e No Green Pass, emerge un fenomeno interessante: la malattia non è più uno status da vivere e affrontare in forma esclusivamente privata, da comunicare solo ai contatti più stretti, così da consentir loro di adottare le dovute misure mettendosi al sicuro. Il passare del tempo e l’evolversi della situazione hanno lavato via l’onta in un primo momento associata al morbo, tanto che oggi siamo forse arrivati all’estremo opposto, a farne ragione d’orgoglio e, diciamolo, un buon motivo per attirare le attenzioni e i like altrui.
Quanti vostri contatti (amici) vi hanno comunicato di essere risultati positivi a COVID-19 nella prima fase della pandemia subito dopo l’esito di un tampone? E quanti lo stanno facendo ora, gridandolo ai quattro venti?
Siamo passati dal creare gruppi Facebook in cui segnalare i malati (il 30 marzo 2020 il Garante Privacy dichiarava Su social e media troppi dettagli sui malati
) a usare noi stessi la piattaforma come megafono attraverso cui urlarlo alla nostra cerchia di parenti, amici, colleghi e conoscenti.
La memoria dei social racconterà la pandemia
Non che al fenomeno o a chi lo alimenta debba per forza di cose essere appiccicata un’etichetta negativa. È forse la manifestazione più chiara, trasparente e lampante di come il nostro rapporto con la pandemia sia mutato, di come aver familiarizzato nostro malgrado con COVID-19, vivendola sulla nostra pelle o su quella di qualcuno a noi vicino, abbia contribuito a renderla questione anche nostra, che tutti siamo in qualche misura chiamati a gestire, positivi e non. I social ci raccontano che la pandemia non è solo di chi si ammala e che abbiamo imparato a convivere col morbo o che lo stiamo facendo, che la responsabilità è collettiva e condivisa, nel mondo virtuale su Facebook così come in ogni comunità di quello reale. E questo è un bene. A patto che non si vada oltre, cedendo alla tentazione di abbassare la guardia pensando che, se il problema è di tutti, allora non è più di nessuno.
Ci lasceremo alle spalle COVID-19, speriamo presto, anche grazie a strumenti come Green Pass, vaccino e buon senso. La memoria comune archiviata dalle piattaforme online racconterà un giorno come abbiamo vissuto questo lungo periodo difficile, come siamo cambiati, come ci siamo lasciati cambiare, come nel corso di una pandemia globale lo status di malato sia passato dal portare il peso di uno stigma al poter essere esibito con un certo orgoglio. E lo farà in modo forse più autentico rispetto a quanto potranno la letteratura scientifica, le pagine dei quotidiani e i freddi numeri, nel bene e nel male, dallo smarrimento iniziale al giorno in cui la crisi sarà terminata, dall’andrà tutto bene alle teorie del complotto. Il tutto, attraverso la lente dei nostri post.