I migliori promotori dei contenuti di qualità e delle conversazioni su questi contenuti sono i social network o siamo noi? E se continuiamo a chiedere a Facebook di regolarsi, lo facciamo perché crediamo davvero tocchi a lui oppure perché non ne veniamo a capo noi? E se anche si decidesse di regolamentare i contenuti che in ogni istante vengono pubblicati sul social network, dovrebbe farlo un governo, un consesso di tutti i governi, nessuno governo bensì un dibattito pubblico rappresentativo? E con quali strumenti? Un regolamento, una carta etica, delle linee guida, una legge ordinaria?
L’anno scorso al Festival Internazionale di Giornalismo a Perugia si toccò il punto più basso di fiducia tra media e Facebook. Quest’anno il clima dei panel di questa bellissima creatura di Arianna Ciccone e Chris Potter (sempre più internazionale, ormai in questi giorni puoi parlare soltanto inglese se vuoi farti capire, alla faccia dei sovranismi) è in un certo senso “ripartito”. Ha certamente aiutato il clamoroso “sorry tour” di Mark Zuckerberg nel 2018 e, più di recente, il suo lungo intervento sui problemi di Facebook e sue possibili soluzioni, molti dei quali ibridati con quelli dell’informazione mondiale.
Alan Rusbridger, Mathew Ingram, James Ball, Jennifer Brandel, Jesper Doub, Emma Goodman, Sylvie Kaufmann, Tanit Koch, Natalie Niugayrèede, Damian Tambini, hanno composto una serie di discussioni attorno a questo mostro indispensabile che è Facebook e in generale il rapporto tra i produttori di contenuti e i social media che questi contenuti valorizzano come nessun altro riesce a fare.
Per chi volesse ascoltare attentamente e con ordine questo filotto: qui, qui e qui.
Qui proviamo a fare una sintesi di cosa è emerso e cosa potremmo aver imparato. Innanzitutto, checché se ne dica non abbiamo prove chiare sulla disinformazione online e sul suo impatto sociopolitico, eppure i governi sono già partiti moltiplicando proposte e leggi secondo il principio per cui “impareremo sbagliando”. Ma a quale costo? E soprattutto, come ha sottolineato Tambini, “i governi non solo non devono censurare il discorso, ma devono anche adottare misure per promuovere la libertà di parola e garantire che le imprese private promuovano la libertà di parola“; ma come farlo in un mondo dominato da aziende private in quel medesimo campo? Ecco perché, nonostante tutte le critiche che si possono rivolgere a Menlo Park, vedere all’orizzonte una gara nazionalista a chi propone le regolamentazioni più severe sulla diffusione di informazioni sui social media – vedi le leggi già approvate in Francia e Germania e il convincimento radicato nel commento giornalistico britannico che la Brexit sia colpa dei social – dovrebbe mettere in allarme.
“Si sta procedendo troppo in fretta?“, ci si è più volte chiesti al festival, riferendosi tanto ai singoli che alle norme, comunque molto discutibili, approvate dall’Europarlamento sul copyright. Ci si concentra sulla rimozione dei contenuti, il tipico approccio emergenziale che guarda alla disinformazione e altri contenuti dannosi, senza però alcun sostegno “hardware”: sociologia, processi culturali, politica, economia. Che accidenti di idea sarebbe fornire alle piattaforme di social media un potente incentivo ad adottare filtri sull’upload (scenario singaporiano) come nel caso della direttiva UE sul diritto d’autore e dell’imminente regolamento sui contenuti terroristici?
“Procedure democratiche, non censura“, recita il motto. Che qui si sottoscrive senza tentennamenti. Tra l’altro non esiste neppure uno standard decente sulla quantificazione del rumore di Internet in relazione ai comportamenti negativi delle masse, e probabilmente sarebbe anche ridicolmente complesso e illeggibile. Sarebbe perciò più intelligente preoccuparsi della qualità democratica delle procedure con le quali accediamo ai nostri stessi contenuti, invece di pensare di ostruirli.
Peccato però che mentre si discute di questo “duty of care” e talvolta si immagina di restare al di qua del metodo Singapore senza però davvero riuscire a capire cosa fare, il giornalismo stesso è già influenzato come in una legge della fisica: la pressione dell’osservante su informazione e media modifica l’osservato. Noi.
Banalmente, ma neanche più di tanto, dovremmo chiederci quanto farebbe bene a Facebook avere un competitor, e se effettivamente non sia l’assenza di competitor, cioè il dominio monopolista di fatto, la vera gravità che impedisce di spostare robaccia dal social e, in seconda battuta, spostarci noi per andare altrove. Un altrove che non c’è.
Un pensiero troppo liberale? Beh, non lo è anche l’ossessione per la leadership dei media classicamente intesi?
Insomma, criticare Facebook è giusto. Lasciarlo è una possibilità, ma è solo un punto di vista individuale. Colpevolizzarlo sui contenuti è troppo facile, quando invece è più saggio colpevolizzarlo per le sue scelte. Cancellarne delle parti con arbitrio fintamente neutrale sarebbe l’ennesimo funerale della democrazia moderna e probabilmente anche del pluralismo: andando a creare un tale precedente di regole internazionali dovremmo considerare la possibilità che molti non avrebbero una tale gigantesca forza economica per la moderation, uscendo così dal mercato. E chi sopravvivrebbe? Ovviamente, Facebook.