Poniamo che hai aperto un wallet su Coinbase o hai acquistato criptovalute con qualsiasi altro servizio (Bitpanda, Binance o altri ancora) e che ora ti stai chiedendo cosa occorra fare in occasione della prossima dichiarazione dei redditi. Sebbene la questione sembri aver trovato ormai un assetto temporaneo, in grado di fornire una interpretazione trasversalmente accettata, in realtà il problema resta fluido ed in cerca di una risposta definitiva.
Come valuta estera
Come ormai risaputo, agli occhi del fisco le criptovalute sono da considerarsi alla stregua della valuta estera, con obbligo di indicazione nel quadro RW della dichiarazione dei redditi. Come del tutto evidente, infatti, tale soluzione altro non è se non una pezza utile a coprire un vuoto normativo all’interno di un percorso che ancora sta cercando di inquadrare la peculiare natura dei cryptoasset all’interno del quadro fiscale italiano.
Così Antonio Tomassini per IPSOA:
Le criptovalute oggi non sono accostabili al concetto di moneta, innanzi tutto perché non hanno corso legale (non possiamo adempiere alle nostre obbligazioni in criptovalute, salvo l’accordo tra le parti, ma ciò equivale ad una permuta, non al pagamento in valuta di una obbligazione), né tanto meno all’estero, essendo le criptovalute ontologicamente a-territoriali. […] Invero l’equiparazione proposta è dubbia anche guardando ai pochi appigli normativi esistenti in ambito antiriciclaggio. Sia il legislatore comunitario che quello nazionale hanno deciso di rimuovere dalla definizione di valute virtuali l’espressione “mezzo di pagamento”, sostituendola con quella di “mezzo di scambio“, allo scopo di rendere ancor più manifeste le differenze che intercorrono tra valute virtuali e moneta.
Nella medesima analisi si ipotizza la possibilità di equiparare Bitcoin, Ethereum e altre crypto come beni immateriali o come strumenti finanziari, in ogni caso utili ad aggiungere valore all’attuale opinabile approccio.
Per il momento non resta che attenersi alle indicazioni fornite ed a cui tutti gli investitori potranno allinearsi:
le cessioni a pronti di valuta virtuale non danno origine a redditi imponibili mancando la finalità speculativa, salvo generare un reddito diverso qualora la valuta ceduta derivi da prelievi da portafogli elettronici (wallet), per i quali la giacenza media superi un controvalore di euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera c-ter), del testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), e del comma 1-ter del medesimo articolo.
Per il resto “è auspicabile che in sede di controllo e accertamento l’Agenzia delle Entrate si astenga dall’applicare sanzioni laddove adotti un’interpretazione difforme da quella prescelta dal contribuente“. Ad essere in difetto in questo caso non è il contribuente, ma una tardiva capacità interpretativa del Fisco di fronte ad un tema tanto nuovo quanto rapido nella sua evoluzione e quindi per propria natura sfuggevole rispetto agli architravi della giurisprudenza tributaria nazionale. Giulia Boletto, per Altalex, già nel recente passavo ammoniva dai rischi di interpretazioni evolutive in questa bolla di deregulation de facto:
Benché in Italia l’ADE, in sede di interpello, le abbia equiparate a valute estere, le caratteristiche intrinseche delle criptovalute rendono impossibile un rigido inquadramento in categorie giuridiche già esistenti e suggerisce, viceversa, di analizzare caso per caso il trattamento fiscale più appropriato e coerente con il loro utilizzo e detenzione.
Chiunque detenga un wallet, insomma, dovrà portare avanti le necessarie verifiche, soprattutto in virtù della dimensione del wallet stesso e degli usi che se ne stanno facendo. La deregulation può essere comoda, ma non sempre offre le necessarie garanzie.