Con 242 voti favorevoli, 73 contrari e 48 astenuti, ieri sera, quando mancavano pochi minuti alle otto, l’Assemblea di Montecitorio ha approvato la proposta di legge contro bullismo e cyberbullismo.
È una notizia che, in tanti, avremmo voluto salutare con soddisfazione e rivolgendo un plauso al legislatore per aver saputo e voluto ascoltare la voce di quanti – in testa Telefono Azzurro e decine di altre associazioni ed organizzazioni che hanno a cuore la salute ed il benessere dei minori – da anni chiedono che lo Stato scenda in campo contro il fenomeno del bullismo, un fenomeno antico quanto il mondo che, tuttavia, in Rete ha trovato nuove forme di manifestazione i cui effetti sono, innegabilmente, più devastanti, persistenti ed allarmanti. Ed invece ci si ritrova costretti a prendere atto con rammarico che, in Parlamento, ancora una volta – come già spesso accaduto in passato specie allorquando si è trattato di disciplinare condotte telematiche – la retorica ha avuto la meglio sul buon senso, i tuttologi hanno prevalso sui tecnici e, soprattutto, le parole hanno travolto le buone intenzioni.
È accaduto così che la legge uscita ieri dall’Aula di Montecitorio – ed ora destinata a tornare in Senato – è, semplicemente ed inequivocabilmente, una brutta legge, scritta male e destinata, vien da dire nella migliore delle ipotesi, a rimanere lettera morta ed a sprofondare nella palude dei tavoli, delle commissioni, dei piani strategici e delle linee guida di cui sono costellate le disposizioni che essa contiene.
È un peccato.
Abbiamo perso tutti perché – val la pena di scriverlo chiaramente prima che qualche ben pensante Onorevole o meno suggerisca un’idea diversa – tutti avremmo voluto che il Paese dichiarasse guerra, per davvero, ad una piaga sanguinante come quella del bullismo e delle vittime all’arma bianca che, da anni, lascia sulla strada.
Chi ha detto, dice e dirà di no a questa legge – nell’Aula di Montecitorio e nel dibattito pubblico – non sta manifestando una volontà diversa da quella che manifesta chi dice di sì ma solo sollevando perplessità concrete, pratiche, operative sull’efficacia delle norme che il Parlamento, con il prossimo voto del Senato, si avvia a trasformare in legge.
Non ci sono favorevoli e contrari al bullismo ed al cyberbullismo.
Ci sono, probabilmente, persone che ritengono che alla retorica delle parole ed agli zibaldoni di principi quando si vuol dichiarare guerra ad un fenomeno che ha trovato nell’ecosistema telematico un terreno fertile sia da preferire la riflessione, l’approfondimento, la comprensione delle dinamiche di funzionamento e di irradiazione dei contenuti nell’ambito di un medium che è ontologicamente diverso dai giornali, dalle radio e dalla televisione.
È difficile scriverlo sapendo che magari queste parole, tra i tanti, raggiungeranno anche quanti hanno visto i loro affetti più cari cadere vittima delle condotte che il titolo della legge promette di combattere e si sono illusi che, anche se in ritardo, lo Stato abbia finalmente fatto qualcosa perché nessun altro debba mai più soffrire così tanto ma, sfortunatamente, questa legge servirà a poco o a niente ed è intrisa fino al midollo di ipocrisia istituzionale.
Guai, naturalmente, a non augurarsi di sbagliare.
Guai a non augurarsi che, al contrario, le nuove norme debelleranno la piaga del bullismo e cyberbullismo o, almeno, ne limiteranno gli effetti.
A leggere il testo, però, è davvero difficile credere che sarà così, e le ragioni di un giudizio tanto severo sono tante.
È ipocrita, tanto per cominciare, stabilire per legge che di un novero di condotte quanto mai vasto e variegato debba occuparsi – a tempo di record – l’Autorità per la protezione dei dati personali ignorando, o fingendo di ignorare, che per combattere un fenomeno come il cyberbullismo servono soldi, risorse e strumenti e l’Autorità in questione, da anni, è costretta a lamentare di essere sottodimensionata persino rispetto alle sfide che già le competono.
Ed è ipocrita prevedere per legge che gli oltre 40 mila istituti scolastici d’Italia debbano armarsi e partire per una santa crociata contro il bullismo, prevedendo una dotazione di risorse pari, più o meno, a 5 euro a scuola.
Ma, soldi a parte – che pure appaiono sintomatici di quanto la legge sia un castello di buone intenzioni e di parole piuttosto che di progetti concreti e destinati cambiare per davvero le cose – è egualmente ipocrita prevedere, per legge, che chiunque possa chiedere al gestore di una piattaforma online di rimuovere un contenuto che ritiene rientrare nella definizione, per la verità magmatica e fumosa di cyberbullismo.
Non serve una legge per legittimare una richiesta. Senza dire che per ragioni incomprensibili la richiesta in questione non può essere rivolta ai gestori delle grandi piattaforme di intermediazione di contenuti prodotti e pubblicati da terzi ovvero proprio a quei soggetti che, al contrario, sono, normalmente, inconsapevoli amplificatori del fenomeno del quale si discute.
Peccato, peccato che si sia scelta la strada della tempesta di parole, principi e proclami solenni anziché quella della tecnologia e scelto di investire su regole incapaci di imbrigliare le dinamiche liquide della Rete anziché ragionare di usabilità, ergonomia ed efficacia degli strumenti di segnalazione delle condotte illecite.
Peccato che, ancora una volta, non si sia capito che se si vuole governare un fenomeno che si esprime in codice ed algoritmi, non si può farlo appesantendo i Codici – quelli delle leggi – ma occorre coinvolgere nella sfida che scrive il codice, i programmi e gli algoritmi.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it