Il punto di partenza è ovvio, forse persino scontato: la lotta al bullismo – e, se proprio si vuole mantenere distinta una condotta che ha evidentemente lo stesso perverso patrimonio genetico – quella al cyberbullismo è sacrosanta. Che lo Stato la promuova e metta in campo ogni risorsa educativa e normativa a tal fine utile è non solo opportuno ma auspicabile e, verrebbe da dire, necessario. Onore e merito, quindi, ai tanti parlamentari che negli ultimi anni hanno abbracciato una causa tanto nobile. La nobiltà degli intenti, tuttavia, non sottrae al rischio che cure e ricette risultino più pericolose del male che si vorrebbe curare e, anzi, della piaga che si vorrebbe debellare.
E a leggere il testo della proposta di legge n. 3139 sul quale, nelle prossime ore, scaduto il termine per il deposito degli emendamenti, la Camera dei Deputati dovrà pronunciarsi, il dubbio che viene è che la ricetta proposta, rivista e corretta a colpi di emendamenti disordinati, sciatti e confusi possa essere davvero peggiore del male.
Se la proposta diventasse legge così come la si può leggere oggi il naufragio a poche miglia marine dal varo sarebbe scontato.
E non solo perché l’implementazione dei principi che stanno alla base dell’originaria iniziativa legislativa – più educazione che repressione – sono stati travolti dalla tempesta di parole che si è abbattuta sul testo originario, ma anche e soprattutto perché quella sulla quale l’Aula di Montecitorio, salvo colpi di scena (un auspicabile ritorno, di corsa, in Commissione per un necessario supplemento di discussione, ndr ) si pronuncerà nelle prossime ore è un’autentica legge marziale, una sorta di codice di guerra con il quale si sospendono le ordinarie dinamiche di accertamento delle responsabilità e condanna dei colpevoli e le si sostituiscono con processi sommari, meglio ancora se celebrati direttamente davanti a giudici privati.
Con la particolarità, tuttavia, che, a differenza di quanto accade in tempo di guerra con una legge marziale, qui le regole eccezionali alle quali Montecitorio sembra strizzare l’occhio varrebbero a tempo indeterminato e, soprattutto, complice una definizione ambigua, scivolosa, liquida ed inafferrabile di bullismo e cyberbullismo, varrebbero, più o meno, per ogni condotta illecita consumatasi online.
“Per cyberbullismo – recita la proposta di legge – si intendono, inoltre, la realizzazione, la pubblicazione e la diffusione on line attraverso la rete internet, chat-room, blog o forum, di immagini, registrazioni audio o video o altri contenuti multimediali effettuate allo scopo di offendere l’onore, il decoro e la reputazione di una o più vittime, nonché il furto di identità e la sostituzione di persona operate mediante mezzi informatici e rete telematica al fine di acquisire e manipolare dati personali, nonché pubblicare informazioni lesive dell’onore, del decoro e della reputazione della vittima.”. Una definizione che vuol dire tutto e niente al tempo stesso, uno zibaldone mal amalgamato di condotte già vietate e che trovano già cure, rimedi e risposte adeguati e, certamente, democraticamente più sostenibili in decine di leggi in vigore.
La verità raccontata con la trasparenza che, almeno quando si affrontano questioni tanto serie, dovrebbe rappresentare un dovere irrinunciabile di chi siede in Parlamento, è che la proposta di legge, oggi, non è matura per chiedere all’aula di Montecitorio di votarla.
Bisognerebbe avere il coraggio – come l’On. Quintarelli sta affannosamente tentando di convincere i suoi colleghi a fare – di fermarsi, far tornare il testo in Commissione, approfondire la discussione e rimuovere gli strafalcioni normativi che hanno deturpato e zavorrato un testo uscito dal Senato non perfetto ma migliore di quello attuale.
Il tempo, naturalmente, è importante in tutte le battaglie a qualsiasi fenomeno illecito ed è tanto più importante quanto più il fenomeno è allarmante ma, con un pizzico di onestà intellettuale, occorre riconoscere che l’attuale proposta di legge prevede una sequenza di decreti di attuazione, codici e linee guida, tavoli tecnici e comitati tanto lunga che, sfortunatamente, sembra idonea a garantirne sempiterna inattuazione.
Un mese in più o un mese in meno, pertanto, davvero non farebbe differenza mentre correggere il testo varrebbe, probabilmente, a trarre la legge in salvo da un naufragio certo.
Anche perché la proposta di legge, per come è scritta oggi, finisce, per l’ennesima volta, con l’attribuire agli intermediari della comunicazione – ovvero ai gestori delle grandi e piccole piattaforme online – un ruolo da sceriffi della Rete che, come insegna, da ultimo, la vicenda della foto della bimba nuda in fuga dal Napalm, rimossa e poi ri-pubblicata da Facebook, non compete loro ed è giusto che non gli competa.
Ve lo immaginate un algoritmo alle prese con il discernimento di una condotta di cyberbullismo da un’opinione, dura quanto si vuole, espressa con il linguaggio talvolta colorito di un diciottenne o, perché non sarebbe poi così diverso, un responsabile editoriale di una grande piattaforma magari americana impegnato, in una manciata di ore, in una valutazione difficile persino per un giudice?
Eppure uno degli effetti della proposta di legge in questione sarebbe inevitabilmente proprio questo.
Non ci siamo, meglio fermarsi a riflettere e cambiar strada, sino a quando si è in tempo.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it