Le pratiche di conservazione dei dati relativi alle attività di comunicazione e alle attività online dei cittadini sono da tempo al centro del bilanciamento fra diritto alla privacy del cittadino e diritto a vivere sicuri, al centro di un dibattito che di recente si è acuito, alimentato da un lato da ciò che gli stati considerano minacce alla sicurezza nazionale, dall’altro dalle misure che gli stati imbracciano per farvi fronte, ponendo i cittadini sotto sorveglianza.
L’Australia è uno dei paesi del mondo che ha scelto di rinvigorire le proprie strategie di tecnocontrollo: da pochi giorni è entrato in vigore un regime di data retention che obbliga i fornitori di connettività e gli operatori telefonici locali a tenere traccia dei metadati che descrivono le comunicazioni e le attività dei cittadini e a conservarli per due anni, così che le forze dell’ordine vi possano accedere agevolmente, senza troppe formalità, per disporre indagini e sventare eventuali minacce.
Le critiche che hanno investito il sistema australiano sono in sostanza le stesse che nel 2014 hanno spinto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea a dichiarare invalida la direttiva che nel Vecchio Continente imponeva la conservazione dei metadati, e che stanno spingendo alcuni paesi europei ad adeguarsi: aggregare i metadati relativi alle comunicazioni dei cittadini consente di tracciare un quadro completo dell’individuo e delle relazioni che intrattiene, opprimendolo con la sensazione di essere costantemente sotto controllo, ma rischia anche di sottoporlo alle violazioni da parte di terzi, poiché la legge non appare in grado di fissare le necessarie garanzie in termini di sicurezza per i datacenter su cui i dati saranno conservati. I costi in termini di privacy, e i costi non indifferenti di gestione, seppur in parte supportati dal governo australiano, non sarebbero insomma giustificati dalle potenzialità limitate di un regime di data retention che, si è osservato in alcuni paesi europei come l’Olanda, non sa supportare altro che il contrasto alla piccola criminalità .
A meno che non siano supportate dai pareri della autorità , le critiche probabilmente non intralceranno i piani di tecnocontrollo dell’Australia. A metterli in discussione, però, potrebbe essere il contesto reale nel quale la legge deve trovare applicazione: la Communications Alliance, che rappresenta l’industria australiana delle telecomunicazioni, ha reso noto che la maggior parte degli operatori di servizi telefonici e Internet si trova ancora in alto mare.
Nonostante i sei mesi previsti per preparare l’implementazione della data retention, di 63 soggetti consultati che dovrebbero aderire allo schema di conservazione dei metadati, solo un terzo ha dichiarato di aver compreso appieno ciò che la legge richiede loro e solo il 16 per cento si è detto pronto a raccogliere e conservare i dati in sicurezza come disposto dal quadro normativo.
La responsabilità, evidentemente, non è solo dei soggetti privati: in molti (81 per cento) hanno presentato un piano di implementazione dello schema di data retention alle autorità competenti, ma ad oggi solo il 10 per cento ha la certezza del fatto che la proposta sia stata approvata .
Nonostante i dati oggettivi, e nonostante dall’ industria e dai cittadini fiocchino gli appelli per tentare di frenare il recepimento della legge, il governo australiano non intende rinunciare al piano: l’obiettivo è conservare a pieno regime entro il mese di aprile del 2017 e per raggiungerlo sono stati stanziati 130 milioni di dollari australiani. Denari che devono ancora raggiungere operatori che stimano spese tra i 10mila e i 10 milioni di dollari.
Gaia Bottà