Roma – Il decreto Urbani sulla pirateria cinematografica li tira in ballo direttamente, sollevando l’attenzione dei giuristi e preoccupando gli operatori. Sono i provider italiani, i fornitori di connettività che ancora una volta hanno a che fare con un dispositivo normativo tutt’altro che facile da gestire, con conseguenze a cascata sulla legalità e sul diritto degli utenti. Punto Informatico ha parlato del decreto e dei suoi effetti con Paolo Nuti , presidente dell’ Associazione dei provider italiani AIIP .
Punto Informatico: Il decreto Urbani è stato approvato. Pensi che sia destinato a raggiungere i propri scopi dichiarati nella lotta alla pirateria sul cinema?
Paolo Nuti: No: la pirateria si combatte responsabilizzando gli autori delle violazioni, non sparando nel mucchio senza neanche fare lo sforzo di capire che differenza c’è tra l’upload e il download, tra un fornitore di accesso e un fornitore di servizi, tra “notizia” ed “effettiva conoscenza”, tra provider e giudice istruttore, tra magistratura e Digos.
PI: Sei uno dei pionieri della rete italiana e sei un testimone diretto della sua evoluzione, dalle prime BBS alle Università Telematiche. Ritieni che una normativa del genere possa inficiarne lo sviluppo e la diffusione o serva invece a creare un quadro di garanzie essenziali per lo sviluppo delle attività economiche su internet?
PN: Così com’è, questo testo obbligherebbe i fornitori di accesso a “tagliare la linea” ad un fornitore di servizi un cui cliente fosse segnalato come autore di una violazione del diritto di autore. Di conseguenza rimarrebbero isolati tutti i clienti di quel fornitore di servizi.
E’ evidente che se si estende ai fornitori di accesso una obbligazione che dovrebbe essere diretta esclusivamente ai fornitori di servizi, questi ultimi non possono che trasferirsi in massa all’estero.
E, già che ci siamo, al danno economico si aggiungerebbe anche un vulnus costituzionale : con l’eccezione dei delitti di mafia e, dopo l’11 settembre, terrorismo, nel nostro ordinamento solo il magistrato può disporre una limitazione al diritto di comunicare.
PI: Al primo articolo del decreto si afferma che “I fornitori di connettività e di servizi che abbiano avuto effettiva conoscenza” della presenza di contenuti illegali devono informarne l’Autorità giudiziaria.
Con il decreto cambiano a tuo parere obblighi e doveri degli internet service provider? Come potrebbe un ISP avere “effettiva conoscenza”?
PN: Bella domanda. “Effettiva conoscenza” è un concetto molto esteso che implica una attività di verifica; in pratica l’ISP dovrebbe sostituirsi al magistrato nelle prime fasi di una istruttoria. Per la qual cosa non ha né titolo, né preparazione. E al termine di questa “pre istruttoria” dovrebbe decidere se denunciare il proprio cliente o correre il rischio di essere denunciato .
A parte la riscrittura indiretta del codice di procedura penale, vedo grossi nodi non solo di privacy, ma anche costituzionali. In pratica o si cancella tutto il comma 5 o si cancella la parola “effettiva”. Nel qual caso il provider diligentemente girerà alla Digos tutte le segnalazioni che riceve, astenendosi da qualsiasi verifica.
PI: Vogliamo affrontare la questione delle sanzioni comprese tra 50mila e 250mila euro che vengono previste per gli ISP che violano gli obblighi previsti dal decreto? Ti sembrano sanzioni equilibrate?
PN: Non è neanche il caso di parlarne: è il decreto legge nel suo insieme ad essere squilibrato.
PI: Gli esperti e gli utenti lamentano l’assenza di una concertazione sulla normativa prima della sua approvazione. Non è stato chiesto il parere dei provider prima dell’approvazione del decreto?
PN: No, dopo lo stop del 4 marzo, i provider si accingevano a preparare una serie di osservazioni costruttive tese a suggerire una riformulazione che, sulla falsariga della direttiva europea in corso di approvazione, desse garanzie a tutte le parti, dai titolari dei diritti agli utenti finali, passando ovviamente per fornitori di accesso e di servizi.
PI: In un tuo vecchio intervento del ’98 su Interlex affermavi che i log non bastano a rintracciare eventuali malfattori in rete. Eppure da lì in genere parte questo tipo di indagini…
PN: Mi riferivo al fatto che i registri di assegnazione temporanea di un numero di rete, il cosiddetto log del Radius, sono indispensabili, ma non sempre sufficienti a perseguire il responsabile di un reato informatico.
D’altro canto è assolutamente inaccettabile il log del “traffico telematico” , bocciato da Camera e Senato in sede di conversione della 254/03, la legge nota come “Grande fratello” e, incredibilmente, rispuntato fuori in una delle prime formulazioni del DL Urbani.
PI: Ma l’Autorità giudiziaria degli strumenti li deve avere…
PN: Il problema è quello di trovare un adeguato bilanciamento tra privacy e lotta al computer crime . Questo bilanciamento, a mio avviso esiste, e lo possiamo identificare nel cosiddetto “anonimato protetto” (secondo cui l’ISP rivela l’identità di un abbonato solo dietro richiesta di un magistrato, ndr.) che mi piacerebbe fosse accolto in sede di stesura del codice di autodisciplina e buona condotta per i servizi telematici, previsto dall’articolo 133 della nuova disciplina della privacy e che è ormai urgente definire.
PI: E’ risaputo che molta parte del traffico broad band italiano e non solo è legato all’utilizzo dei sistemi peer-to-peer . Oggi questo rappresenta un vantaggio o uno svantaggio per i provider?
PN: Penso che l’equivalenza “Grande traffico = P2P” sia in via di esaurimento. I servizi di videotelefonata, videoconferenza, Internet TV, connessione LAN to LAN, distribuzione di contenuti multimediali (non necessariamente a pagamento, ma comunque nel rispetto della proprietà intellettuale) si avviano a fare la parte del leone.
Certamente il P2P ha dato un forte contributo alla richiesta di banda e ne hanno beneficiato economicamente i provider che hanno venduto a volume/tempo (posto che qualcuno faccia P2P a tempo…) e quelli “infrastrutturati”, ovverosia che hanno una rete in fibra.
PI: Al di fuori di ogni altra considerazione sul decreto Urbani, a tuo parere il file sharing via P2P è destinato ad essere imbrigliato da normative e soluzioni tecnologiche antipirateria? Siamo al tramonto di queste piattaforme di condivisione?
PN: Sul sito della ALCEI (Associazione per la Liberta nella Comunicazione Elettronica Interattiva, Electronic Frontiers Italy) c’è un documento che inquadra molto bene la questione sotto il profilo legale e, di fatto, fa intravedere quello che potrebbe essere un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi interessi in gioco: il down-load (DL Urbani a parte) è già legale; l’up-load può essere fatto solo da chi ha la titolarità dei diritti, ovvero la acquisisce direttamente o indirettamente. Non le chiamerei soluzioni tecnologiche antipirateria, ma soluzioni tecnologiche per un DRM (Digital Rights Management) equo.
PI: Equo?
PN: E’ una soluzione già adottata in Canada, tutela i titolari dei diritti, riporta la copia per uso personale nel suo ambito naturale, evita che la tutela del diritto di autore si trasformi in un argomento in più a favore del “Grande Fratello” e soprattutto, a differenza del DL Urbani, è compatibile con la Direttiva comunitaria in fase di approvazione definitiva e con la Costituzione italiana.
Intervista a cura di Paolo De Andreis