In occasione dell’Innovation Summit 2020, Deloitte ha pubblicato i risultati di una ricerca condotta su 6000 cittadini italiani ed europei, “includendo il punto di vista di rappresentanti e manager di circa 20 imprese operanti in diversi settori industriali“, a proposito dell’impatto dell’innovazione in questi mesi di lotta al Covid-19. Interessanti i risultati ottenuti, ma in particolare emerge la percezione di una innovazione che mantiene la sua caratura “esponenziale” (centrata sull’ombra della Legge di Moore e sul suo incessante sviluppo in termini di performance tecnologiche), ma che ancora fatica a dimostrarsi realmente utile.
Deloitte, bisogna ripensare l’innovazione
La sensazione, insomma, è che l’innovazione tenda spesso a piegarsi su sé stessa, dimenticando l’importanza di un approccio antropocentrico e che rende l’evoluzione tanto entusiasmante quanto poco proficua ai fini del miglioramento del benessere della persona. Spiega Andrea Poggi, Innovation Leader Deloitte North South Europe:
Se da una parte l’innovazione digitale è stata in grado di aiutarci nell’emergenza e di far evolvere i nostri comportamenti gestendo la crisi, dall’altro è anche evidente come sia necessario un approccio più consapevole e fuori dalla moda dell’innovazione guidata solo dai trend e dalle performance della tecnologia. Per declinare meglio le potenzialità e il valore che l’innovazione ci può fornire, è necessario leggerla attraverso una nuova prospettiva, che possiamo definire antropocentrica, che quindi mette l’uomo al centro in tutte le sue dimensioni. Questo è l’insegnamento del covid-19: abbiamo bisogno di innovazione ma di una innovazione vicina ai bisogni veri dell’uomo e capace di fornire una interazione che bilancia l’elemento virtuale e quello fisico. Infatti, secondo la nostra ricerca, per il 55% degli italiani il continuo utilizzo della tecnologia per parlare con i propri cari o amici durante il lockdown ha incrementato la voglia di contatto umano. Non solo: per il 36% degli italiani il processo di digitalizzazione non considera sufficientemente l’aspetto umano.
La conseguenza è che l’innovazione non riesce realmente a soddisfare tutti i bisogni a cui ambisce di dare risposta, perché “spesso non funziona se non vi è un’integrazione della dimensione fisica con quella digitale“. Gli italiani si sono dimostrati sostanzialmente aperti a cogliere le novità suggerite dal digitale durante questi mesi di difficoltà, ma spesso e volentieri sono stati limiti di natura infrastrutturale (quale l’accesso alla banda larga) a frenarne gli entusiasmi.
La fase post-pandemica dovrà pertanto imporre un ragionamento di fondo a tutto il settore che sull’innovazione scommette: senza un progetto incentrato sull’uomo, il rischio è quello di vanificare parte del valore che si potrebbe invece ottenere. “Quindi dobbiamo valorizzare l’asset per eccellenza e cioè il capitale umano, incentivare la creatività e imprenditorialità e supportare il trasferimento tecnologico tra centri di ricerca e imprese dell’ecosistema“, conclude Poggi: “Tutte cose che non mancano al nostro Paese e all’Europa stessa“.