Se fosse possibile avere un grafico in grado di mostrare una curva della depressione ed una della diffusione della disinformazione, molto probabilmente i due trend andrebbero pressoché a braccetto, coinvolgendo pressoché la medesima porzione di popolazione. Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti, infatti, vi sarebbe una forte correlazione tra i due elementi, aspetto che meriterà pertanto future e più approfondite analisi.
Sarebbe fuorviante soffermarsi superficialmente su valutazioni di tipo esperienziale, basandosi su sensazioni personali. In questo caso a parlare sono i dati, che secondo lo studio dell’Harward Medical School sarebbero inoppugnabili: le interviste condotte in tempo di pandemia ricollegano con forti indizi di causalità uno stato di depressione con la maggior propensione a credere nei principali gangli della disinformazione sul Covid. Non è questione di divergenza di opinioni: la ricerca non è andata sul sottile, perché l’obiettivo non era quello di cercare la Verità sulla pandemia, quanto quello di portare in evidenza la maggior apertura a credere in teoremi privi di alcuna base scientifica.
Se dunque chi manifesta uno stato di depressione arriva a credere con molta più semplicità ai chip iniettati con il vaccino, o manifesta più resistenze di altri al vaccino stesso, c’è un nesso da studiare e approfondire poiché in questa dinamica può celarsi l’accelerata propagazione della disinformazione su alcune tematiche particolarmente importanti.
Semplicità cercasi
Tra le rilevanze emerse dallo studio v’è una prima possibile spiegazione a questo fenomeno: i grandi complotti sono spiegazioni semplici a fenomeni complessi. La Verità, invece, è solitamente una commistione complessa per fenomeni che si vorrebbe interpretare con semplicità. La scarsa propensione all’elaborazione di un pensiero complesso, unitamente a improvvise situazioni che creano difficoltà, porta con maggior facilità a cadere sulla disinformazione perché offre alla persona fragile esattamente ciò di cui abbisogna: certezze, sicurezze, basi solide a cui aggrapparsi.
Stati depressivi e ansietà creano una situazione tale per cui non si accetta di buon grado ulteriori pesi sulla propria psiche: ci si adagia dunque volentieri sulle iperboli del complottismo, sulle mani tese del cospirazionismo e sull’emotività dell’indignazione.
Il risultato è che maggiori sono le certezze percepite, maggiore è il numero di errori che in realtà si stanno compiendo. Il che è di per sé ovvio: solo “sapere di non sapere” consente uno studio vero della materia, mettendo in dubbio costantemente le proprie certezze per poter acquisire nuove conoscenze. Quando però le risorse disponibili (tempo, conoscenza, predisposizione all’approfondimento) sono ridotte in virtù di stati pregressi di debolezza, ecco che il corto circuito viene a verificarsi. E la disinformazione trova terreno fertile (nonché mercato) su cui lavorare.
Lo studio, conseguente al “Covid States Project” che ha portato avanti il sondaggio, consiglia approfondimenti ulteriori per un ulteriore processo di depurazione delle evidenze da possibili bias. Un approfondimento sarà in effetti doveroso, perché lungi dal poter consolidare oggi nessi causali determinati, è fondamentale capire quali siano le cause e quali le conseguenze in questo tipo di evidenze. I vantaggi potrebbero essere molteplici: a livello individuale, trovando nuove risorse per supportare autostima e fiducia, e a livello sociale, riducendo gli spazi di manovra per i fenomeni cospirazionisti e tutti i danni collaterali che stanno disseminando in giro per il mondo.