Dave Moorhouse è un muratore britannico di 56 anni. Nel lontano 2007, tornando da una giornata di lavoro a Leeds, fa una triste scoperta: il suo piccolo cane Rocky è scomparso nel nulla. Moorhouse non se l’era proprio sentita di lasciare il suo Jack Russell dentro casa, legandolo così al guinzaglio nel giardino privato.
Rocky è però svanito nel nulla, forse liberatosi o addirittura rubato. Dave Moorhouse inizia a cercarlo disperato in ogni dove, prima di decidersi a contattare un quotidiano locale. Nessuna notizia del Jack Russell, fino all’aprile di quest’anno. Il cittadino britannico riceve una particolare missiva da parte di una società chiamata Anibase.
Ovvero un’azienda specializzata nella fornitura di microchip per l’identificazione degli animali domestici come Rocky. Nella lettera viene chiesto a Dave Moorhouse di consentire ai nuovi proprietari del cane di aggiornare il database della stessa società. Includendo nuove informazioni sulla nuova residenza del Jack Russell .
“Ho spiegato ad Anibase che non avevo alcuna intenzione di trasferire la proprietà del cane dal momento che mi era stato rubato”, dirà poi Moorhouse alla stampa britannica . L’uomo decide quindi di contattare la società per farsi rivelare l’esatta localizzazione di Rocky . Una possibilità apparentemente garantita dall’esistenza stessa di un microchip canino.
Invece no . Anibase si rifiuta di consegnare i nuovi dati a Dave Moorhouse, timorosa di violare i termini di legge del Data Protection Act d’Albione. All’uomo non rimane altro da fare che ricorrere ad una corte della contea di Huddersfield. Che sottolinea come la faccenda non ricada nella sua giurisdizione.
Ma a Moorhouse serve una sentenza civile – se non addirittura penale – per ottenere le informazioni da parte di Anibase. Altrimenti verrebbe violato il Data Protection Act . Un interrogativo assale a questo punto l’uomo: “perché ho impiantato un microchip sul mio cane se poi non mi serve per riaverlo indietro?”.
Mauro Vecchio