Fra i telespettatori italiani serpeggia un dubbio maligno: si sente dire in giro che nei prossimi anni avverrà un nuovo switch-off della TV digitale, simile a quello che si è concluso appena quattro anni fa. Molti sono giustamente preoccupati di dover, loro malgrado, mettere mano al portafogli per adeguare il proprio impianto alla nuova situazione che si verrà a creare. Ma quale situazione, e quando? Cerchiamo di dare una risposta a questi pressanti interrogativi.
Il problema della scarsità di frequenze
L’Italia, a differenza della maggior parte degli altri paesi che fanno parte della UE, ha un sistema televisivo incentrato prevalentemente sulla TV digitale terrestre. Negli altri paesi, infatti, il peso fra DTT, satellite e cavo è maggiormente equilibrato. Per questo le frequenze televisive sono sempre state considerate una “risorsa scarsa”.
In Italia oggi si contano circa 48,5 milioni tra apparecchi televisivi con sintonizzatore digitale integrato e decoder esterni. L’unica alternativa significativa al DTT è il satellite, con circa 8 milioni di abitazioni raggiunte. La TV via cavo (Internet, di fatto, anche se altrove ha avuto altro significato nel passato) ha ancora un ruolo irrilevante. Gli operatori muniti di licenza nazionale (Rai, Mediaset, Cairo, Rete A, Rete Capri) hanno attualmente un numero di multiplex (gruppi di canali trasmessi sulla medesima frequenza) che supera il 50 percento delle risorse che rimarrebbero a disposizione dopo il passaggio alla telefonia mobile della banda 700 MHz. Le risorse per i canali locali rischiano quindi di essere altamente insufficienti.
A ciò si aggiunga il fatto che l’Italia è ancora indietro per quanto riguarda la televisione ad alta definizione (HD), proprio per colpa delle scarse risorse per le frequenze, che entro qualche anno rischiano di divenire ancora più scarse. Tutto ciò impone per forza di cose un cambiamento dal punto di vista tecnico delle trasmissioni, che preveda un graduale abbandono dell’attuale sistema a vantaggio di uno in grado di assicurare un maggior grado di compressione delle informazioni, quindi un migliore sfruttamento delle frequenze a disposizione.
A questo punto, però, occorre forse fare un breve excursus di natura tecnologica sugli standard di trasmissione e i codec di compressione video, presenti e futuri.
Gli standard
Lo standard attualmente utilizzato per trasmettere i programmi della tv digitale terrestre è il DVB-T, definito nel lontano 1997 dall’ ETSI e adottato nella maggior parte dei paesi europei, tra cui l’Italia, per il passaggio dalla TV analogica a quella digitale. Nel 2008 l’ETSI ne ha ratificato il successore, il DVB-T2, capace di ridurre l’impiego di banda in trasmissione di circa il 30 percento. Alcuni paesi, partiti in ritardo nella corsa allo switch-off, lo hanno adottato direttamente, senza passare per il DVB-T.
Il DVB-T2 è, come si dice in gergo, retrocompatibile: ciò significa che un decoder DVB-T2 è in grado di ricevere anche programmi in standard DVB-T, ma non viceversa. Dunque, l’adozione di questo nuovo standard di trasmissione da parte delle emittenti italiane comporterebbe la necessità di un nuovo switch-off, non meno traumatico di quello avvenuto nel periodo 2008-2012. Sarebbe necessario affiancare a molti televisori, anche recenti, un nuovo decoder operante nel nuovo standard. Una operazione dai costi decisamente elevati per i consumatori, ma anche per le emittenti che dovrebbero rinnovare le apparecchiature di incapsulamento e di trasmissione del segnale.
Ci sarebbe un modo meno drastico e oneroso per ridurre l’occupazione di banda dei programmi DDT: adottare un codec video più performante, l’MPEG-4 al posto dell’attuale MPEG-2, senza cambiare lo standard di trasmissione, come ha già fatto la Francia. Anche perché l’MPEG-4 è già presente da alcuni anni nei televisori in commercio e viene utilizzato per trasmettere i canali HD di Rai, Mediaset e La7. L’MPEG-4 permette di ridurre il consumo di banda del 50 percento, a parità di qualità delle immagini: se tutte le emittenti lo adottassero, sia per i canali HD sia per gli SD (Standard Definition), abbandonando l’ormai obsoleto MPEG-2, il costo per la collettività sarebbe molto minore.
Si stima, infatti, che gli apparecchi TV in grado di ricevere programmi in MPEG-4 siano addirittura più di quelli abilitati ai soli programmi in MPEG-2: 22 milioni contro 17. Questo dà senza dubbio un vantaggio alla soluzione di cambiare il solo codec di compressione mantenendo l’attuale standard DVB-T, anche se il DVB-T2, unito al codec HEVC, permette una economia di banda ancora più vantaggiosa (circa il 50 percento in più), spianando la strada alla trasmissione di contenuti HD e 4K (nuovo formato video che supera ulteriormente la risoluzione di uno schermo Full HD). Anche in questo caso, le ambiguità non mancano, dal momento che esistono due profili dello standard HEVC: Main e Main 10. Il profilo Main 10 garantisce un livello qualitativo superiore e la compatibilità con nuove prestazioni in fase di definizione (maggiore gamma cromatica, elevato contrasto) ma non è compatibile con i decoder che contemplino il solo profilo Main.
La normativa italiana si è mossa con un certo ritardo sul fronte dell’innovazione tecnologica, al punto che, attualmente, è ancora possibile vendere televisori non dotati di tuner DVB-T2/HEVC. Non sarà possibile solo dal 1° gennaio 2017. A oggi, quindi, la diffusione della codifica HEVC è molto bassa e tutto fa pensare che non sarà possibile coprire la maggioranza dei ricevitori distribuiti nella popolazione con il naturale processo di sostituzione prima del 2025. Per anticipare i tempi, secondo Confindustria Radio e Televisioni , si dovrebbero obbligatoriamente adottare politiche di supporto pubblico alla diffusione di televisori capaci di ricevere il nuovo standard DVB-T2/HEVC. L’alternativa sarebbe un nuovo switch-off.
Conclusioni
Quale modalità verrà scelta dunque per sopperire alla sottrazione di frequenze della banda 700 MHz (di cui abbiamo già parlato su queste pagine ), qualunque sarà la data in cui questa avverrà? Un nuovo switch-off, con il passaggio dallo standard di trasmissione DVB-T al più performante DVB-T2/HEVC, oppure più semplicemente l’abbandono del poco efficiente sistema di compressione MPEG-2 in favore dell’MPEG-4, mantenendo quindi l’attuale DVB-T? E come potrebbero influire queste decisioni sullo sviluppo dei programmi ad alta definizione (HD) e, vieppiù, di quelli UHD nei prossimi anni?
Le nostre conclusioni portano a considerare che la scelta di passare, seppure entro il 2022, al DVB-T2/HEVC avrebbe ripercussioni piuttosto pesanti sulle tasche dei telespettatori italiani e anche sui conti dei broadcaster, ma aprirebbe la strada all’avvio di programmi regolari non solo in standard HD ma anche in Ultra HD. Per contro, la scelta di limitarsi a convertire tutte le trasmissioni DTT in MPEG-4 comporterebbe costi assai inferiori per tutti, ma servirebbe appena a compensare la perdita di frequenze dovuta al passaggio della banda 700 MHz agli operatori di telefonia mobile, lasciando insoddisfatta la richiesta di una maggiore efficienza nell’uso dello spettro radio necessaria per l’evoluzione dei programmi in Ultra HD. E rimandando il problema a un futuro non molto lontano.
Pierluigi Sandonnini