Direttiva brevetti, il dibattito si allarga

Direttiva brevetti, il dibattito si allarga

La risposta dell'avv. Piana all'articolo di Paolo Zocchi - Il commento di Andrea Rossato - La posizione del PLIO - Le novità da Bruxelles della Free Software Foundation Europe
La risposta dell'avv. Piana all'articolo di Paolo Zocchi - Il commento di Andrea Rossato - La posizione del PLIO - Le novità da Bruxelles della Free Software Foundation Europe


Roma – Caro Direttore, vengo chiamato in causa direttamente in un articolo apparso sulla sua rivista a firma di Paolo Zocchi, in tema di brevetti software. L’autore ha correttamente ricordato la mia contrarietà alla direttiva ma sarei lieto di chiarire il contesto di questa affermazione, che per eccesso di concisione probabilmente non traspariva nel mio articolo originario , nel quale mi occupavo infatti di una possibile, ma non certa, evoluzione del mercato del software, in linea con recenti e meno recenti avvenimenti.

In realtà, quando dico che c’è una possibile tendenza che potrà spingere a rendere “pubblico” ciò che è “privato” per azione della forza del software libero, affermo appunto una possibilità, una chance , che è un possibile scenario, non necessariamente il più probabile. Sarebbe come se dicessi che, in presenza di una malattia che può fare un milione di vittime, esiste uno scenario in cui una particolare categoria di quelle vittime potrebbe salvarsi perché portatrici di un gene che, pur recessivo, potrebbe sviluppare immunità. Nessuno si sognerebbe di citare questa possibilità come una ragione per non vaccinare in massa la popolazione.

Allo stesso modo, la direttiva brevetti – che pure consoliderebbe una pratica eccessivamente liberale dell’EPO già in atto e contrastante con la stessa Convenzione Europea (sicuramente nello spirito, a mio parere anche nella lettera) – è una potenziale sciagura. Non esiste, e nessuno l’ha dimostrato – anzi, nessuno si è seriamente interrogato sulla questione – una correlazione tra l’introduzione di maggiori protezioni del software e giovamenti all’economia e alla ricerca.

Un effetto sicuramente deteriore invece sarà quello alla concorrenza e all’intercompatibilità. Chi si pone a favore dei brevetti software, invece, ritiene che innovazione equivale a numero di brevetti, e misura la prima con i secondi. Tale equivalenza al massimo statistica, se vale per la ricerca delle applicazioni tecniche (sottolineo “se”), non vale per il software in sé.

Nessuno dimostra e nessuno può ragionevolmente sostenere che l’innovazione nel campo del software sia dovuta ai brevetti (i più dei quali nulli o irrilevanti), invece che all’accesa concorrenza tra i produttori in molte aree di esso. Tra concorrenza e brevetti, infatti, esiste una bella antinomia.

Tale sciagura potrebbe essere limitata nella sua estensione non perché sia un male minore di quello che è, ma in quanto gli effetti potrebbero essere mitigati nella loro devastazione. Ciò, inoltre, varrebbe solo per il software libero, anzi, per una parte del software libero che ha una particolare forza commerciale e strategica, come il kernel Linux. E gli altri tipi di software, incluso quello proprietario? Come ho scritto, ad ogni modo, i brevetti software sono un male in sé, e salvarsi l’anima “a spese di altri” non è particolarmente elegante. Dirò di più, stimolato da un’affermazione di Zocchi circa possibili vantaggi competitivi del software “open” (parola che riconosciamo ambigua): “a spese di altri traendo vantaggi in proprio”. Mentre il software libero (come preferiamo chiamarlo) si deve imporre non perché gli altri vanno a fondo, ma perché è (e in quanto lo sia) migliore e dà più vantaggi, di ogni tipo, soprattutto quelli legati alle famose “quattro libertà”.

Concludendo, se esistono due linee di resistenza, una più avanzata (impedire che la direttiva brevetti venga approvata così com’è) e una più arretrata (limitare i danni della direttiva), ritengo che nella fase in cui si è assestati sulla prima non si debba guardarsi troppo indietro, perché si corre il rischio di non fermarsi nemmeno sulla seconda, e trovarsi a Caporetto. Pertanto, se pure si può discutere di tutto, e personalmente non voglio figurare tra gli zeloti di nessun campo, neppure mi va di prestarmi a dare argomenti a chi è possibilista per la direttiva. Io non sono tra quelli.

Avv. Carlo Piana
Studio Legale Tamos Piana & Partners
Via Ciro Menotti 11 – 20129 Milano


Prendo spunto dal pacato e lucido intervento di Paolo Zocchi per entrare nel dibattito in tema di brevettabilità del software, dibattito che trovo, sia detto con franchezza, alquanto deludente. Esso infatti si svolge quasi esclusivamente sul problema dell’incentivo alla creatività ed al progresso tecnologico, ed è volto non solo a comprendere se e quanto i brevetti operino in questa direzione, ma, specialmente da parte di chi risponde affermativamente, a come configurare le norme da adottarsi al fine di incrementarne l’effetto benefico.

In questa sede voglio dare per ammessa l’affermazione secondo la quale i brevetti operino nel senso di “ricollocare la ricerca all’interno delle imprese come un vero investimento e non un costo secco”, per usare l’espressione di Paolo Zocchi, sebbene debba ricordare a me stesso che essa è, in base alle evidenze storiche, innegabilmente controfattuale. I primi linguaggi di programmazione ed i primi compilatori, i sistemi operativi, il concetto stesso di sistema operativo, i primi linguaggi di alto livello, le tecniche di programmazione orientata agli oggetti, per citare solo alcuni degli strumenti che quotidianamente ancor oggi usiamo, sono nati in un periodo nel quale non solo la brevettabilità non era concessa per il software, ma financo il suo inquadramento nell’ambito del diritto d’autore era oggetto di dibattito.

Ritengo però che non sia questa la questione sulla quale dovremmo dibattere, quanto se l’istituto del brevetto sia, per come sviluppatosi nei numerosi secoli, quasi sei, dalla sua invenzione, adatto a svolgere le funzioni per le quali viene invocato. E temo la risposta non possa che essere negativa.

Il diritto dei brevetti nasce per dare protezione ad invenzioni o procedimenti industriali che si esprimono nel mondo fisico. Esso attribuisce all’inventore un diritto esclusivo di sfruttamento economico della cosa inventata alla condizione che egli sia disposto a fornire alla collettività tutte le informazioni per riprodurla, al fine di condividere le idee e le conoscenze che condussero alla sua realizzazione. Ciò viene fatto mediante una dettagliata descrizione dell’invenzione, descrizione che deve consentire, ad ogni persona esperta del ramo, di attuarla.

Ora, vi è certamente uno iato tra la descrizione ed il suo oggetto e tale iato costituisce uno dei problemi fondamentali del diritto dei brevetti. Una descrizione è necessariamente una rappresentazione astratta, ma il requisito della riproducibilità dell’oggetto contribuisce a ridurre tale iato. Tuttavia il problema sussiste e ne abbiamo evidenza allorquando vi sia una controversia per supposta violazione. Il giudice, al fine di verificare la sussistenza della violazione, dovrà operare un giudizio di equivalenza per stabilire se due oggetti o due procedimenti siano il prodotto della stessa invenzione. Ma a che livello di astrazione deve essere operato questo giudizio di equivalenza? A quello della descrizione, a quello dell’oggetto concreto, o in un qualche livello intermedio?

Per dare un esempio che possa chiarire la questione, si possono citare casi nei quali un interruttore elettrico fu considerato equivalente ad uno elettronico implementato mediante software. In questo caso, si vede, l’equivalenza è rilevata ad un livello molto astratto, che elimina tutte le differenze materiali della cosa e si concentra sulle sue funzioni.

Si badi però che nell’ambito dei brevetti, in particolare per quel che concerne i procedimenti, opera un limite, quello che impedisce la brevettabilità del risultato. Si pensi al Velcro. Esso può essere utilizzato per chiudere un portafogli, o al posto dei lacci delle scarpe. Ma il brevetto copriva lo specifico utilizzo del Velcro, non il risultato di chiudere un portafogli. Ciò risulta banale, ma cosa succede quando l’oggetto del brevetto diviene il software?

Se osserviamo le descrizioni dei brevetti software nell’ordinamento statunitense vediamo che in esse mai vi si potrà leggere del codice sorgente. Si tratta sempre di descrizioni astratte. Il problema è che un algoritmo, anche dettagliatamente descritto, può essere implementato in un’infinità di modi, con molti linguaggi di programmazione, con costrutti, funzioni od oggetti assai diversi gli uni dagli altri. Si pone quindi il problema della riproducibilità dell’invenzione descritta, e del giudizio di equivalenza tra implementazioni analoghe. A che livello questa deve essere rilevata?

Ciò mostra come lo iato tra descrizione ed il suo oggetto sia, nel caso del software, estremamente amplificato. Con i problemi di gestione di questo iato, demandata al giudice, che si presentano come estremamente problematici.

Ma l’ampiezza dello iato, la distanza tra la descrizione di un algoritmo e la sua implementazione specifica mediante un determinato segmento di codice sorgente, iato che nell’ambito delle invenzioni industriali e dei procedimenti che si esprimono nel mondo fisico è mitigata dalla materiale riproducibilità, non configura la descrizione come una mera idea computazionale, per usare una felice espressione di Stallman? Non serve infatti citare Platone per affermare che un’idea altro non è che un concetto spogliato di ogni concretezza.

E tale iato è gestibile ad opera di un giudice? O non rischiamo forse il piú totale degli arbitri? Quello che dobbiamo domandarci, in altri termini, è se, data la natura del software e il tradizionale operare del diritto dei brevetti, questo sia lo strumento istituzionale adatto per gli scopi che vogliamo attribuirgli.

Una soluzione sarebbe proponibile: la concessione del brevetto potrebbe essere subordinata al deposito, in allegato alla descrizione, del codice sorgente che implementa l’invenzione, e questo solo sarebbe l’oggetto della protezione.

Si comprende però come questa sia una soluzione non certo caldeggiata dalle software house. Il giudizio di equivalenza sarebbe ora molto stringente, e, dall’altro lato, facilmente eludibile. Un tale brevetto rischierebbe di essere inutile.

Ma vi è un’altra ragione che disincentiva i produttori di software dall’approvare un tale compromesso: oggi il codice sorgente è protetto dal segreto industriale; il codice oggetto è protetto dal diritto d’autore e da sistemi di Digital Right Management.
Ora, che le idee che esso esprime, non coperte dal copyright, siano infine oggetto di brevetto non pare tanto dovuto dalla necessità di incentivare il progresso tecnologico, quanto… dall’ingordigia.

Andrea Rossato


Roma ? Di seguito il comunicato stampa diffuso nelle scorse ore dal PLIO
Il Progetto Linguistico Italiano OpenOffice.org (PLIO) esprime la sua forte preoccupazione in merito ai contenuti del dibattito Europeo sui brevetti software, che nel prossimo mese di luglio potrebbe veder approvata la Direttiva Europea denominata CII (Computer-Implemented Inventions) nella sua versione peggiore ? approvata dalla Commissione Europea il 7 maggio 2004 ? in aperto contrasto con gli emendamenti approvati dal Parlamento in prima lettura.

La direttiva CII, nella forma attuale, costituisce un rischio enorme per l’industria europea del software, poiché sommandosi al copyright (diritto d’autore), strumento da sempre utilizzato per la tutela degli investimenti e della “proprietà intellettuale” di chi produce software, espone autori indipendenti, imprese e utenti al continuo rischio di cause per azioni legali. Infatti, mentre la tutela del copyright prevede il rispetto di quanto espresso nella licenza di un software, e quindi l’eventuale plagio o copia del software stesso si configura come un atto malevolo intenzionale, nel caso del mancato rispetto di uno o più brevetti la situazione è molto diversa, dato che ? per l’assenza di strumenti di ricerca efficaci per “navigare” il registro dei brevetti ? il rischio di confusione è molto più alto, tanto che negli Stati Uniti, dove purtroppo il brevetto ha una storia ultradecennale, si parla addirittura di “campo minato”.

La direttiva, di fatto, porterebbe a concedere il monopolio sullo sfruttamento delle idee, né più né meno come accadrebbe se venissero brevettati il giro armonico o il romanzo: addio musica, addio letteratura.

L’estensione della brevettabilità al software mira quindi a innalzare artificialmente le barriere di ingresso al settore ICT. In futuro, infatti, la scrittura del software non potrà più essere considerata solamente un’attività creativa, ma richiederà un lungo processo preventivo per verificare se le idee che si vogliono utilizzare per scrivere un programma (e potrebbero essere migliaia anche per il programma più semplice) violino o meno la “proprietà privata” di qualcun altro che quelle idee ha pensato ? e potuto, visti i costi ? brevettare. Idee che nella maggior parte dei casi sono assolutamente banali.

Occorre ricordare che fino a oggi la protezione del software attraverso il copyright ha permesso di mantenere delle basse barriere all’ingresso, e ha consentito a PMI e a singoli di accedere al mercato senza necessariamente disporre di ingenti capitali. Con il tipo di brevettabilità proposta dalla commissione, lo sviluppo del software si trasformerebbe in un business per pochi, come testimoniano le tristi esperienze statunitensi, su cui la stessa Federal Trade Commission ha espresso dubbi e perplessità.

Vista l’immaterialità del software e il numero spropositato di brevetti, soprattutto banali, concessi dai patent office, il violare un brevetto, anche senza intenzione, diventa per un programmatore una cosa praticamente inevitabile e quindi molto rischiosa. In USA, infatti, i costi giudiziari per una causa di violazione brevettuale, anche se non si è colpevoli, si aggirano fra i 500.000 e i 4.000.000 di dollari per singolo brevetto (e qualsiasi programma di una certa complessità può facilmente venire accusato di violarne decine). Questo spiega perché le PMI, in caso di contenzioso, anche solo per il rischio di aver per violato brevetti banali o relativi ad algoritmi e metodi di cui esistono realizzazioni precedenti alla data di accettazione del brevetto (la cosiddetta “prior art”), preferiscono pagare le royalties richieste senza affrontare il contenzioso o, nei casi in cui il detentore del brevetto non voglia risolvere la questione sul piano economico, interrompere l’uso del componente software oggetto del contendere.

I brevetti software, quindi, sono un danno per chiunque, perché riducono ? o nei casi peggiori annullano ? la possibilità di mettere sul mercato prodotti dotati di funzionalità già coperte dai brevetti stessi. Inoltre, se consideriamo la quantità di brevetti esistenti (più di 30.000 registrati solo in Europa, in barba alla legge), la loro genericità e la mancanza di strumenti efficaci per appurarne l’esistenza, la direttiva obbligherà a eliminare delle funzionalità da prodotti già in commercio:

– PostgreSql, il famoso DMS Open Source, dovrà adottare un sistema di caching meno performante in tutte le nuove versioni, per evitare il rischio di infrangere un brevetto attualmente “pending” (ovvero, ancora in attesa di registrazione da parte dell’ufficio brevetti statunitense);
– Microsoft dovrà eliminare dai sistemi operativi una nuova funzionalità di comunicazione che rende più veloci le comunicazioni via rete;
– L’adozione della quanto mai necessaria nuova versione del protocollo Internet IPv6 potrebbe essere rallentata dalla scoperta di un brevetto di Microsoft che riguarda una parte importante del protocollo stesso;

Se la piccola e pressoché sconosciuta Eolas dovesse vincere la causa intentata contro Microsoft per un banale meccanismo contenuto nei programmi per la navigazione Web, meccanismo che Eolas non ha certamente inventato ma ha furbescamente brevettato, l’intero universo del Web ne subirebbe delle gravi conseguenze.

Anche il multimediale e la telefonia Internet (VoIP) sono dei veri e propri campi minati dal punto di vista brevettuale (e si tratta di brevetti sempre molto astratti e dalle rivendicazioni sproporzionatamente ampie, poiché sono stati depositati con il preciso scopo non già di difendere l’innovazione ma di intralciarla, intercettando ricchezza).

Per concludere, il brevetto esteso ai formati, come nel caso dell’XML Microsoft, creerebbe una discriminazione tale per cui l’utente che deve accedere alle proprie informazioni ? contenute in un formato proprietario ? potrebbe vedersi costretto a pagare una royalty anche se volesse usare programmi alternativi. E questo, per la pubblica amministrazione, costituirebbe un fardello spropositato per la gestione di informazioni che, nella realtà, sono di proprietà dei cittadini stessi.

Alcuni link di approfondimento

Un esempio di cosa è già stato brevettato in Europa per un negozio on-line:
http://webshop.ffii.org/index.it.html

Info generali e come protestare:
http://www.nosoftwarepatents.com/it/m/intro/index.html (in italiano)
http://www.ffii.org/index.it.html (molto parzialmente in italiano)

Alcune cifre per i brevetti europei (al 2004)
http://www.sl-lab.it/twiki/pub/Main/DirettivaBrevetti/Fumagalli.pdf
Tutte le ultime novità sul fronte dei brevetti (in inglese):
http://wiki.ffii.org/SwpatcninoEn

PLIO, Progetto Linguistico Italiano OpenOffice.org


Roma – Di seguito il comunicato stampa diffuso nelle scorse ore da Free Software Foundation Europe
Una rappresentanza di aziende italiane, capitanata da Giacomo Cosenza (Sinapsi Spa), si è coordinata tramite gli sforzi di Free Software Foundation Europe per incontrare a Bruxelles gli europarlamentari e portare la propria voce in tema di brevetti sul software. L’iter ufficiale per l’approvazione della proposta di direttiva europea sulla brevettabilità dei programmi per elaboratore, infatti, sta proseguendo attraverso storture che rischiano di generare convinzioni tendenziose tra chi sarà chiamato il 20 Giugno a dare un parere sul controverso argomento nella Commissione Giuridica dell’Europarlamento.

Le dichiarazioni di Confindustria , favorevole al testo attuale della Direttiva che sancisce la legalizzazione dei brevetti sulle idee astratte, hanno avuto molta più visibilità delle opinioni contrarie della maggioranza delle aziende italiane. Inoltre, solo Confindustria si è potuta permettere dei lobbisti professionisti a Bruxelles per assicurarsi colloqui con gli europarlamentari italiani. Le altre realtà imprenditoriali e associative hanno avuto finora solo l’appoggio di FSFE e FFII per spiegare i motivi per cui il provvedimento darà origine a danni più che a benefici per il tessuto tecnologico ed economico europeo.

“La Confederazione generale dell’industria italiana non è l’unico referente dell’ICT italiano – spiega Stefano Maffulli, presidente della sezione italiana di FSFE – perché è portavoce solo di una parte delle opinioni dei soggetti coinvolti. Si prenda, a titolo di esempio, la posizione di Confesercenti , totalmente dissonante rispetto alle posizioni di Confindustria”.

Giacomo Cosenza ha compiuto il tour dei colloqui con i parlamentari europei: “Stiamo facendo un giro di tutti i nostri referenti istituzionali, anche quelli contrari alla direttiva, per capire le convinzioni da cui prendono le mosse e rinforzare l’intenzione negativa per chi invece voterà già in questo senso. Occorre infatti sottolineare che il software libero non è affatto il problema specifico in discussione: la direttiva penalizzerebbe pesantemente tutte le PMI che operano nel settore del software, a prescindere dal tipo di licenza con cui esso è distribuito”.

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Pubblicato il
17 giu 2005
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