Un gruppo di 77 informatici ha chiesto alla Corte Suprema di rivedere l’interpretazione in base alla quale API ed altre interfacce utente possono essere blindate dal diritto d’autore .
L’interpretazione chiamata in causa dal gruppo di ricercatori è quella relativa al caso che vede contrapposti Oracle e Google per il diritto d’autore delle API Java.
Oracle, da quando le ha fatte proprie (soldo su soldo), acquisite insieme a Sun System, ha cercato di veder riconoscere i suoi diritti su di esse: così, ha portato in tribunale Google per l’utilizzo che ne ha fatto, senza citazioni e limiti. Google, da parte sua, si era appellata al principio del fair use (l’uso legittimo di un’opera consentito senza autorizzazione) e si era vista dare ragione dalla Corte di primo grado, che aveva altresì riconosciuto che, trattandosi dell’idea in sé (l’impiego di Java), Oracle non potesse neanche ricorrere al diritto d’autore che in quanto tale tutela solo l’espressione di un’idea.
La Corte Federale che ha esaminato il caso ha poi ribaltato tale decisione e stabilito che le API Java siano tutelate dal copyright e che Google avrebbe dovuto dimostrare di aver utilizzate nella logica del fair use .
Il gruppo di informatici, tra cui Vint Cerf (da anni dipendente di Google), cinque vincitori del Turing Award, quattro della National Medal of Technology and Innovation e diversi fellow dell’ Association for Computing Machinery , di IEEE e dell’ American Academy of Arts and Sciences , hanno deciso di intervenire nel procedimento insieme agli attivisti di Electronic Frontier Foundation perché ritengono che l’esito e l’interpretazione di questa decisione sia di fondamentale importanza per il futuro sviluppo del settore .
Secondo quanto riferiscono , infatti, l’utilizzo libero ed open delle API è stato per l’industria informatica essenziale e fondamentale fin dalla sua origine : una libertà basata sull’assunto “riconosciuto” che le API non fossero coperte dal diritto d’autore e che la Section 102(b) del Copyright Act proteggesse solo il codice sorgente di un programma come espressione creativa del programmatore e non altresì i processi, i sistemi ed i metodi che tale codice impiega per interfacciarsi con altri software, considerandoli di fatto alla stregua di linguaggi in quanto tali non tutelabili.
A sostegno della loro tesi, gli esperti hanno portato diversi esempi di sviluppi ottenuti proprio a partire dal lavoro su API altrui, a partire dai primi PC cloni di IBM e dallo sviluppo del linguaggio di programmazione C.
Se le API fossero tutelabili tramite diritto d’autore, dunque, le conseguenze sarebbe catastrofiche perché “i creatori avrebbero diritto di veto sul lavoro di qualsiasi altro sviluppatore che lavora con l’intenzione di ottenere un programma compatibile”.
Claudio Tamburrino