Il tema della proprietà intellettuale diventa sempre più importante mano mano che ci addentriamo nella Società dell’Informazione. Questo perché in quello che è il mondo presente e che sarà sempre più in futuro, i prodotti che trainano l’economia sono le idee.
Guardandoci intorno però possiamo facilmente notare che sia sul fronte del diritto d’autore , sia sul fronte dei brevetti industriali , la normativa vigente non riesce più a coniugare le necessità di chi ha le idee e di chi le acquista. La fuga della popolazione dai canali tradizionali verso i vari commons – IP liberi, open source, Creative Commons, wireless commons – o verso i network P2P, la nascita anni orsono delle cosiddette etichette indipendenti, e l’esplosione dell’autoproduzione in tempi più recenti, sono i segni inequivocabili che il diritto d’autore è malato e abbiamo bisogno di una nuova definizione della proprietà intellettuale. Non sono il primo a dirlo né sarò l’ultimo, dunque sorvolo sui possibili motivi – già ampiamente trattati da PI – in modo da poter arrivare velocemente alla proposta che, per i contenuti e per il livello delle persone coinvolte nel progetto potrebbe uscire dal Parlamento forse proprio durante questa legislatura: dmin.it .
Nella homepage del sito si legge che l’obiettivo è “dare all’Italia una posizione leader nei digital media”. È inoltre importante sottolineare come dmin.it sia un work-in-progress – sono quasi giunti alla seconda versione – che si sta evolvendo mano mano che sopraggiungono nuovi contributi; i promotori stessi si definiscono “un gruppo interdisciplinare, aperto, senza scopo di lucro” e pertanto la partecipazione è benvenuta.
Avventurandosi invece nella Proposta 1 si deduce immediatamente che è “una proposta per massimizzare la circolazione dei digital media”, dove per digital media si intendono “i contenuti espressi mediante tecniche numeriche, trasportabili su reti numeriche ed elaborabili con dispositivi programmabili”: aumentare la diffusione di libri, musica, video, codice morse, cultura. Come ottenere questo risultato? Rimuovendo gli ostacoli attuali, ovvero agendo sui contenuti, sul mezzo di trasporto dei contenuti e sulle modalità di pagamento dei contenuti ovvero, in termini a noi oggi noti: DRM, Internet, Micropagamenti.
In dmin.it ognuna di queste tre componenti assume una forma altamente innovativa, ma è abbastanza rivoluzionaria da poter essere addirittura definita “terza via” come ritengono i suoi promotori? Oppure è solo l’ultima e più sofisticata delle iniziative teleguidate dall’industria per porre fine allo scambio amicale sui circuiti del P2P?
iDRM, Neutralità, PVO
Dmin.it si basa su una nuova forma di DRM chiamato iDRM dove la “i” sta per “interoperabile”; la filosofia di fondo è che acquistare un’opera non deve legare gli acquirenti ad un determinato software (es: Apple iTunes) o hardware (es: il decoder Sky) o circuito economico verticalizzato (es: Alice) creando dunque pericolose sacche monopolistiche in mercati fra loro adiacenti e/o iniquità accessorie come il cosiddetto equo compenso.
È bene specificare che non si tratta necessariamente di una filigrana digitale analoga ai sistemi DRM oggi in commercio. In attesa di ulteriori delucidazioni pensiamo all’iDRM come una autorizzazione d’uso, una per ogni file, gestita con sicurezza di livello crittografico, in un ipotetico server della SIAE. DRM quindi irremovibile perché è “server-side”, non “client-side”: chi ha il file nel proprio computer non ha alcuna possibilità di rimuovere l’iDRM semplicemente perchè questo non è nel proprio computer.
Questo crea i presupposti per riequilibrare il difficile rapporto tra rights holder – le major dell’editoria, della musica, del cinema, del software e via dicendo – che vorrebbero walled-garden ovunque e assicurarsi così anche in futuro le attuali rendite di posizione, e chi lavora invece da anni sulle reti che hanno sempre permesso di trasmettere contenuti in modo neutrale: gli operatori TLC. La proposta dunque include anche un’idea di rete che sia neutrale e simmetrica.
Viene da sé, inoltre, che in un mondo dove ogni file prodotto ha un’etichetta che ne identifica per sempre l’autore e le modalità d’uso consentite, c’è bisogno di un sistema sufficientemente sicuro, flessibile, granulare e automatico – vista l’enorme quantità di files che circolano – atto a gestire adeguatamente i conseguenti movimenti monetari: ognuno di noi è al contempo un acquirente di opere e un potenziale autore, pertanto quella di un “portafoglio virtuale opere” appoggiato su un circuito bancario, assegnato magari alla nascita come è il codice fiscale, che raccolga i proventi delle nostre opere e paghi i nostri acquisti di opere altrui, è un modo estremamente esatto ed efficiente per gestire le transazioni economiche legate alle opere d’autore. Anche questo server-side, a monte, come le tasse per i dipendenti pubblici o i proventi che la SIAE raccoglie per poi versarli agli autori. Veniamo ora all’analisi. Questo articolo è un’idea nata lo scorso settembre; però vista la complessità del progetto e una prima impressione esageratamente negativa, per la pubblicazione mi è sembrato opportuno attendere un po’ e nel frattempo approfondire iscrivendomi al loro riflettore – una mailing list aperta – sul quale in questi mesi ho posto varie domande , sollecitazioni , proposte , provocazioni alle quali sono seguite però solo risposte evasive. In ogni caso dopo l’ intervista di Punto Informatico a Leonardo Chiariglione ho ritenuto importante che dmin.it, proposta normativa rivolta agli italiani e per altro già apprezzata trasversalmente dalla politica, iniziasse a rispondere pubblicamente anche alle domande degli acquirenti di opere, tutt’ora assenti nella lista degli aderenti .
E questo perché dmin.it è un’iniziativa molto valida dal punto di vista tecnologico ma potrebbe rivelarsi al contempo superflua e estremamente pericolosa: non affronta l’unico problema concreto (riformare il diritto d’autore), può concretamente permettere alle major di terminare il fenomeno P2P in due tempi, non ha alcun contatto con la realtà dei milioni di individui oggi collegati ad Internet; e infine perché viene propagandata, operazione di cui le iniziative genuine non hanno bisogno, con tecniche via via più sottili.
No cura, no party
Quando a settembre sono arrivato al riflettore dmin.it , i promotori ripetevano come un disco rotto che l’iDRM serviva soltanto a misurare l’uso ma non a proteggere le opere dallo scambio amicale. Successivamente, come nell’intervista, sono passati a sottolineare come la “R” di DRM stia per Rights e non per Restrictions. Ma come fa notare lo stesso Chiariglione nel riflettore, qualsiasi licenza, anche la Creative Commons, implica delle restrizioni; pertanto è chiaro che la “R” stia per “Restrictions”. Il nocciolo del discorso dunque non è tanto nella gestione delle “R” ma nel definire bene il delicato passaggio che da Restrictions porta a Rights, ovvero quali restrizioni dobbiamo accettare come diritti inalienabili degli autori: occorre ridefinire il diritto d’autore e dmin.it salta a piè pari questo importantissimo passaggio.
L’iDRM poi, dona alle major la soluzione ai loro problemi, soluzione che neanche una vasta associazione di aziende – SDMI , a suo tempo capitanata anch’essa da Leonardo Chiariglione – era riuscita a portare a casa: prima introduce un DRM irremovibile sulla totalità dei dispositivi hw/sw in circolazione senza però modificare le abitudini di fruizione dei consumatori, e poi in un passo successivo questo può essere facilmente trasformato – proprio perché oramai non esistono più dispositivi che non ne onorano le specifiche – nella più efficace misura di limitazione alla libera circolazione delle opere mai vista. Circa 5 mesi fa chiedevo ai promotori di dmin.it: cosa ci guadagnano gli acquirenti e la società civile tutta? Io attendo ancora una risposta ma è il caso che iniziate a chiedervelo anche voi, prima cioè che veniate messi davanti al fatto compiuto.
Attenzione però, l’iDRM – come la rete neutrale e il PVO – è uno strumento di per sé formidabile sul quale io stesso investirei ad occhi chiusi; solo dopo però aver risolto l’unica vera quaestio, che non è tecnologica; semplicemente: prima la riforma del diritto d’autore – gli ammortizzatori sociali – e poi l’etichettatura totalitaria delle opere: se non posso avere la cura, non potete aver il mio consenso. Spostare il controllo dei file dalle mani degli acquirenti alle mani dell’industria, come sta cercando di fare il Trusted Computing Group , e per di più mantenendo il sistema a monte e quindi virtualmente inviolabile, non va bene; per lo meno non senza dare qualcosa in cambio a coloro che prima, pagando le tasse, concedevano agli autori dei privilegi come incoraggiamento alla diffusione del sapere. Dunque, o smettiamo di pagare le tasse per garantire gli autori, o l’iDRM è iniquo; oppure smettiamo di essere obbligati a pagare le opere per qualunque uso non lucrativo (ma rimanendo sempre liberi di pagare i nostri idoli).
Oggi poi, milioni di persone usano quotidianamente, da anni, lo scambio amicale come fonte, spesso unica, di opere d’autore (diuturnitas); tanti , meno dei primi ma in costante aumento, ritengono (opinio iuris seu necessitatis) che il diritto d’autore debba essere ridefinito per consentire la massima divulgazione delle opere d’autore. Realtà sufficiente ad applicare un criterio di legittimità piuttosto che di legalità; quantomeno sufficiente ad integrare le fonti formali (ivi inclusi i trattati internazionali) con questa consuetudine; in ogni caso impossibile da ignorare. Pertanto se dmin.it non risponde anche alle domande di chi oggi usa i sistemi di scambio amicale, non può essere la soluzione concreta al problema della retribuzione degli autori. E l’ennesima normativa che verrà percepita come un’imposizione coatta dai milioni di acquirenti delle opere non può che fallire e anzi alimentare ulteriormente i conflitti già esistenti.
Infine CC e iDRM, è vero, non si escludono a vicenda; ma non sono figlie della stessa cultura .
La licenza Creative Commons , che io considero l’evoluzione naturale del copyright, applica da 1 a 3 restrizioni, seguendo un principio libertario di fair use, e la separazione più vistosa è tra lucro e non lucro. L’iDRM invece applica 1 sola restrizione (non è possibile rimuoverlo), seguendo un principio totalitario di autorità dei rights holder sugli acquirenti, e non c’è alcuna distinzione tra lucro e non lucro. Ma la differenza tra libertario e autoritario è enorme ; ad esempio è la sola differenza tra i paesi scandinavi in testa agli indici che misurano il benessere e tutto il resto dell’Europa.
Michele Favara Pedarsi
Gli altri interventi di M.F.P. si trovano a questo indirizzo