Dmin.it, risposta ad Andrea Rossato

Dmin.it, risposta ad Andrea Rossato

di Leonardo Chiariglione - Nessun riferimento a Trusted Computing o Fritz Chip, nessuna blindatura: dmin.it è una proposta che consente al consumatore di fruire in tutta libertà delle opere pubblicate in Italia
di Leonardo Chiariglione - Nessun riferimento a Trusted Computing o Fritz Chip, nessuna blindatura: dmin.it è una proposta che consente al consumatore di fruire in tutta libertà delle opere pubblicate in Italia

Il fatto che qualcuno non appartenente a dmin.it abbia deciso di leggere i documenti generati nei due anni di attività del gruppo e di fornire commenti ( Dmin.it e il Trusted Computing all’italiana di Andrea Rossato su Punto Informatico del 7 novembre) è positivo, e questo è tanto più vero quanto più l’autore è qualificato e preparato.

Noto che per Rossato la proprietà intellettuale (PI) è un male. Forse, ma nella realtà delle cose c’è la dematerializzazione di molte componenti delle attività economiche dei paesi avanzati che ne incrementa costantemente l’importanza. La voce di maggior peso dell’export degli Stati Uniti è appunto la PI e quell’enorme serbatoio di esseri umani che si chiama Cina, che noi pensiamo solo impegnati a copiare borse di Valentino, ne produce sempre di più.

Invece è vero che nell’attuale assetto esistono enormi concentrazioni di PI nelle mani di pochi e che questi sono dotati degli strumenti per valorizzarla economicamente, mentre i molti che ne hanno non riescono a valorizzarla, ed infine i moltissimi che potrebbero crearne non lo fanno perché sanno che non riusciranno a farne niente. Quindi, più che marginalizzare la PI, dato che c’è e, finché ci sarà, penso sia opportuno per l’Italia trovare, come recita l’obiettivo del gruppo dmin.it , “aree di interventi che le consentano di acquisire un ruolo primario nello sfruttamento del fenomeno globale digital media”, questi ultimi essendo uno dei casi più rilevanti di PI.

È possibile che esistano altri modi per organizzare la società che non prevedano un ruolo per la PI e mi aspetto che studiosi e ricercatori ci portino idee praticamente applicabili. Ma è una battaglia diversa e intanto la campana che sta suonando oggi ci dice che l’Italia sta sempre più scivolando in basso nella graduatoria dei paesi che hanno qualcosa da dire a da fare al mondo.

Rossato sembra poi pensare che il Digital Rights Management (DRM) sia male. Dipende, ma fino a prova contraria la parola “management” significa gestione e non protezione come molti ritengono (può esistere DRM senza protezione; le misure di protezione specificamente si chiamano TPM). Quindi un sistema di distribuzione basato su licenze Creative Commons espresse in RDF mediante le quali un autore può facilmente gestire la distribuzione delle sue opere senza avere necessariamente bisogno dei servizi di Nielsen Media è un DRM. Vogliamo bandirlo? Io non penso che questo sarebbe una buona idea.

Se invece si vuole includere nel DRM anche la protezione dei contenuti (le TPM), come sembra intendere in modo univoco Rossato con l’acronimo DRM usato in modo estensivo, sono assolutamente d’accordo che l’uso che si fa di questa tecnologia da parte di alcuni è odioso a molti.
Questo però, più che delle tecnologie TPM, è colpa dell’impianto legislativo in vigore che in Italia va sotto il nome di Legge sul diritto d’autore, incluse alcune recenti aggiunte. Se c’è un male (ed anch’io penso che ci sia) è il male che va curato, come la medicina insegna, non i sintomi.

Rossato sembra anche pensare che il Trusted Computing (TC) sia male. Forse, ma nel mondo reale, la maggior parte dei laptop arrivano oggi con il Trusted Platform Module (TPM) del TC montato dalla fabbrica. Che facciamo? Scriviamo una lettera ad Intel chiedendo loro di non mettere più il TPM nelle sue CPU? Scriviamo una lettera al Trusted Computing Group chiedendo di desistere? Altri l’hanno fatto e sappiamo i risultati.

Il vero problema dell’articolo sta però nel fatto che il suo autore o non conosce, o non ha letto, o non ha capito o ha distorto quello che ha letto e/o capito.

1. Nonostante nei documenti di dmin.it non ci sia menzione alcuna di Trusted Computing, questo nome compare perfino nel titolo dell’articolo. Sappiamo tutti quale sia la pratica giornalistica di fare “effetto”, ma sarebbe logico aspettarsi che un docente universitario che scrive di architettura nello spazio digitale si attenesse a pratiche più consone al suo ruolo. Sennò addio a discussioni “aperte e corrette”. Forse è colpa del titolista di Punto Informatico, ammesso che ne esista uno, ma dmin NON fa riferimento alcuno a Fritz Chip e Trusted Computing.

2. Secondo Rossato la proposta dmin.it imporrebbe a tutti l’obbligo di legge di acquistare apparati iDRM. Questo NON è vero. L’unico obbligo previsto dalla proposta riguarda coloro che distribuiscono contenuti con DRM proprietario e precisamente di distribuirli anche in iDRM. Questa, di dotarsi di apparati iDRM, è quindi una facoltà offerta così che il consumatore non sia obbligato a comprare apparati proprietari diversi per fruire di offerte di operatori diversi. Alla stessa stregua quella di apporre funzionalità iDRM ai loro apparati partecipando così al mercato iDRM è un’opportunità offerta ai costruttori di apparati hardware o software, non un obbligo.

Rossato fa poi alcuni errori “tecnici” molto significativi:
1. iDRM non è un “sistema”, è solo un insieme di tecnologie utilizzabili dagli interessati per costruire sistemi

2. Solo una di queste tecnologie si chiama “Linguaggio per esprimere diritti” (in inglese REL), con cui si “esprimono” (non si “statuiscono”) diritti. Quale valore legale abbia l’espressione non è considerato da dmin.it (ma Rossato è più che benvenuto a contribuire i propri pensieri al riguardo)

3. NON è vero che per costruire apparati “sicuri” è necessario far uso di trusted computing come dimostrato dalla quasi totalità dei set top box di pay TV e dalla maggior parte degli apparati di telefonia mobile.

Invece Rossato non parla mai di quella che è la parte forse più qualificante della proposta dmin.it e cioè la possibilità di utilizzare iDRM non soltanto come sistema di protezione, ma anche come sistema che permette forme di distribuzione “leggere” quali l’uso di licenze Creative Commons espresse in REL o la realizzazione di sistemi alternativi di compensazione (ACS).

Infine Rossato fa alcune critiche:
1. Alla governance del sistema iDRM che dmin.it ha sviluppato semplicemente estendendo le attuali pratiche dell’industria. Io penso che nessuno possa dirmi pavido nei confronti di nuove tecnologie, ma prima di proporre di mettere in pratica modalità completamente nuove per regolare rapporti tra entità economiche la prudenza è d’obbligo. Se Rossato vuole contribuire i propri pensieri al riguardo è però benvenuto.

2. Al fatto che tutti i sistemi DRM sono sbilanciati nei confronti degli aventi diritto. Questo è noto ma non è causato dall’iDRM, piuttosto da quello che ho chiamato prima l’impianto della legge d’autore a cui iDRM non fa altro che adeguarsi (e come potrebbe fare altrimenti?). L’iDRM invece è proprio l’occasione per rivedere questi sbilanciamenti ed apportare gli opportuni cambiamenti e questo non sulla base di preconcetti, ma di evidenza acquisita con l’uso dei sistemi iDRM sperimentali che il gruppo dmin.action di dmin.it sta attualmente realizzando.

3.A “scenari più bui ed inquietanti di quelli tratteggiati dalla fantasia di George Orwell nel suo romanzo ‘1984’” senza peraltro descriverli. Non conoscendoli non sono in grado di commentare, ma posso affermare che la proposta dmin.it porta a risultati che non sono né bui né inquietanti, e cioè:

a. Abbassamento della soglia di accesso alla distribuzione da parte di chi crea
b. Facilità per un fornitore di servizi di agganciarsi a catene del valore altrui
c. Possibilità per un consumatore di accedere a e fruire in tutta libertà di tutte le opere pubblicate in Italia.

Al contrario di ciò che avviene oggi.
Scusate se è poco.

Leonardo Chiariglione

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Pubblicato il
11 dic 2007
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