Roma – Cosa vorremmo sotto l’albero che abbiamo addobbato, in questi giorni, negli uffici californiani di IP Justice? Beh, come europeo non avrei grandi dubbi, in questo momento. L’assoluzione piena, anche in appello, di Jon Johansen, l’hacker norvegese da anni sotto processo penale , ad Oslo, per l’affair DeCSS.
La scorsa settimana il processo di appello è finito. Come IP Justice seguiamo la vicenda sin dalle origini, in stretto contatto con i legali di Johansen, con Johansen stesso e con le organizzazioni, soprattutto in Norvegia, che tanto hanno supportato Johansen in questo periodo grigio per la civiltà giuridica europea.
Anche il processo di appello è finito. La decisione del giudice verrà resa, salvo imprevisti, il 22 dicembre. E ci sarà poco da commentare, come di solito succede nelle sentenze di appello. O verrà confermata l’assoluzione di primo grado, o la procura e le lobbies dell’entertainment otterranno, in seconda battuta, ciò che si erano viste sfuggire in gennaio: la condanna di Johansen.
Se è meglio non fare previsioni anche per scaramanzia si possono comunque già tirare alcune somme.
Il processo Johansen è stato, senza dubbio, il più importante processo in Europa avente ad oggetto un hacker.
E’ stato il primo processo, in Europa, voluto – fortemente voluto – dalle lobbies dei produttori discografici e cinematografici statunitensi. Durante il processo, in molti casi, la stessa Norwegian Economic Crimes Unit è sembrata riluttante ed imbarazzata – ad andare avanti con le accuse; ma le pressioni politiche , ed economiche, sono state fortissime.
E’ stato il primo processo esemplare . Si fa causa a un ragazzino di 16 anni non per quello che ha fatto nello specifico, non per ottenere un risarcimento (di solito, i legali, i soldi li cercano dove ci sono altri soldi, non dalla paghetta settimanale di uno studente norvegese), bensì per fare vedere al mondo che certe cose non si fanno, che se si tocca l’industria, l’industria reagisce, che si può fare ricerca, reverse engineeering, scrivere programmi su tutto (anzi: su quasi tutto) ma non sul mondo dorato dei DVD, di Hollywood, dell’entertainment.
Mentre il mondo della scienza lo premiava e lo ringraziava per il suo lavoro (come miglior giovane studioso norvegese), mentre l’Accademia (con il prof. Bing, un nome “storico” dell’informatica giuridica mondiale) prendeva pubblicamente le sue difese, mentre tutto il mondo lo invitata a parlare e lo aiutava a raccogliere fondi per la sua difesa, l’industria interveniva sul diritto, sulla politica criminale, sul governo norvegese, spingendo una procura riluttante a portare avanti un’indagine penale che non aveva alcun fine se non quello di tutelare, con un uso distorto del diritto penale stesso, specifici interessi economici.
Abbiamo visto sfilare decine di testimoni. Tutti a dire che Johansens non è un criminale, non è un pirata, voleva semplicemente esercitare i suoi diritti su prodotti originali regolarmente acquistati; tutti a dire che è un piccolo genio, che la sua battaglia per un diritto dei consumatori ad avere il controllo più ampio possibile sulle opere che acquistano legittimamente (e che sta portando avanti, in questi giorni, anche con riferimento al sistema iTunes di Apple ) è una battaglia giusta e che sta portando avanti in nome di tutti; tutti a dire che l’aggiramento del CSS era unicamente per vedere su sistemi Gnu/Linux i DVD che aveva acquistato regolarmente; tutti a dire che dovrebbero ringraziarlo, per quello che sta facendo, invece di trascinarlo alla sbarra .
Ma tutto questo lo sapevamo già. La cosa che più ci ha dato fastidio è stata la strana sensazione come giuristi europei – che qualcuno (la MPAA degli Stati Uniti d’America, la Hollywood dei lustrini e dei cartoni animati) entrasse a gamba tesa nel nostro sistema giuridico, nella nostra civiltà del diritto, chiedendo la condanna di un nostro cittadino, chiedendo di dimenticare principi, tradizioni, stili che la nostra civiltà giuridica in molti casi, soprattutto nel diritto penale, esporta al mondo intero. E non abbiamo bisogno di prendere lezioni di diritto – e di civiltà – sicuramente, dai discografici e dai produttori cinematografici americani.
Abbiamo visto equilibrismi da circo trasferiti nelle aule di tribunale: non si sapeva, in concreto, quale legge applicare per mettere in galera il ragazzino (non essendo applicabile una fattispecie di aggiramento delle misure tecnologiche come prevista dalla EUCD e da alcune normative nazionali, tra cui l’Italia) e si è optato per una legge che disciplina sic! – l’apertura abusiva di posta “normale” (Sezione 145 del codice penale) e che già era stata estesa, in alcuni casi, al furto di documenti elettronici, ma mai all’ipotesi del reverse engineering.
L’importanza di questo processo che è diventato, in Europa, un caso di scuola va ben oltre ciò che deciderà la prossima settimana il giudice norvegese. Si sono lette tante cose, ma una sensazione, a volte, vale più di cento
parole. La sensazione quando abbiamo incontrato gli attori che ruotano attorno a questo (tragico) teatrino dell’affair DeCSS, sia in Norvegia sia negli USA, è quella di una sempre maggiore voglia di controllo . Controllo sulla conoscenza, sulla libertà di ricerca, sulla libertà di manifestazione del pensiero.
Che a nessuno, nel mondo dell’entertainment tecnologico, interessi più dei diritti dei consumatori è un segreto di Pulcinella.
Ma che questi interessi economici spingano anche ad utilizzare il diritto penale come arma, come deterrente (qualcuno ricorda le manette e le galere in alcuni spot televisivi ??), per disegnare un mondo dove non c’è più spazio per la creatività, per le libere utilizzazioni, per la libertà in generale, beh, significa solo una cosa: crisi della civiltà giuridica. E non è certamente un bene.
Prof. Avv. Giovanni Ziccardi
Board of Directors, IP Justice
http://www.ziccardi.org