L’ ISAE ha recentemente pubblicato l’indicazione del valore della soglia di povertà percepita, cioè il compenso minimo mensile che una persona deve percepire al di sotto del quale è impossibilitata a soddisfare i suoi bisogni personali. La cifra ammonta a 1300 euro netti al mese per un single, molto al di sopra della soglia indicata dall’ISTAT in 560 Euro, ma comunque non un granché, specie se si vive in una grande città.
Partendo da questo dato mi sono fatto due conti ed una domanda: quanto deve essere la tariffa giornaliera a cui un azienda vende una sua risorsa per permetterLe di vivere al limite della soglia di povertà percepita?
Per ricavare la tariffa ho eseguito il seguente calcolo.
Immaginiamo che un impiegato percepisca 1300 euro netti per 14 mensilità. A fronte di questo reddito l’azienda ha un costo annuo pari al doppio del netto del lavoratore, cioè 36.400 euro.
Considerando che l’azienda vuole avere un 15 per cento di profitto al netto delle tasse, dovrà vendere la propria risorsa a non meno di 250 euro al giorno per 210 giorni. In pratica a fronte di 52.500 euro incassati, 8.000 circa andranno all’azienda e 18.200 circa all’impiegato (al netto delle tasse).
In pratica per ogni euro fatturato dall’azienda il 50 per cento va allo Stato, all’impiegato arriva il 34,6 ed un 15 per cento è il guadagno netto dell’impresa.
Ora, se consideriamo che il tasso d’inflazione reale secondo l’Eurispes è dell’8 per cento, affinché un’impresa possa dare al lavoratore quanto ha perduto con l’inflazione senza diminuire il margine di profitto, deve aumentare di conseguenza la tariffa giornaliera; questo porterà a sua volta ad un rincaro dei prezzi, che porterà a sua volta ad un aumento dell’inflazione.
Da quando il 31 luglio 1992, lo Stato ha abolito la scala mobile ritenendola causa dell’inflazione, in accordo con i sindacati, è successo di tutto con risultati catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti . In breve, l’attuale stasi degli stipendi, fermi da 10 anni, si deve all’errata strategia dei governi passati che invece di puntare ad un aumento della produttività, come in USA, hanno pensato di fare concorrenza ai paesi emergenti contenendo i salari (pura follia se considerate i salari indiani o rumeni): una delle conseguenze di questa scelta è la diminuzione in modo drammatico del consumo interno e della chiusura di tanti esercizi commerciali.
In una situazione del genere, considerando che nulla obbliga un datore di lavoro ad incrementare le retribuzioni, che non esiste un salario minimo garantito (ammesso che sia la soluzione ) e che la contrattazione contrattuale è ferma, è chiaro che nessun aumento in busta paga è previsto nel breve periodo.
Inoltre, è proprio di questi giorni la notizia che l’inflazione programmata, cioè di quanto dovrebbe essere l’aumento contrattuale per recuperare il potere d’acquisto, è stata fissata all’1,75% per quest’anno ed all’1,5% per il prossimo. Un chiaro segnale che il futuro di chi vive di stipendio non si prospetta roseo, anche perché l’obiettivo dichiarato nel D.P.E.F. è quello di risanare il debito con fortissimi tagli per rimanere nei parametri europei.
Contro la perdita del potere d’acquisto le aziende italiane o aumentano i prezzi (chi ha un mercato e se lo può permettere) oppure realizzano una contrazione dei costi, spesso dei soli costi del personale, per sopperire alla perdita di competitività.
Un po’ peggio andrà al nostro ipotetico impiegato, che oggi vive alle soglie della povertà, e l’anno prossimo a causa dell’aumento (reale) dell’inflazione sarà impossibilitato a soddisfare i suoi bisogni personali, a meno di non cambiare lavoro ed essere assunto in un’azienda dove la sua redditività aumenti considerevolmente, cosa assai difficile da realizzare nel nostro paese dove le imprese IT sono spesso delle piccole ditte che lavorano a loro volta per delle piccole realtà economiche. Realtà talmente piccole che uno stipendio di 1300 euro al mese per molti è già un traguardo, specie quando si proviene dall’incubo del precariato del lavoro a progetto.
Tutto quanto detto sopra si scontra con l’alta specializzazione richiesta ad un lavoratore IT e con la grossa domanda di personale tecnico che si riscontra nelle offerte di lavoro.
Il quadro che ne risulta è un mercato del lavoro per una persona IT in cui è facile entrare, ma in cui è difficilissimo farsi strada, se non impossibile in molte zone d’Italia in cui l’economia rallenta.
Come spesso si sente da chi di queste cose se ne intende, l’IT è legato all’economia e l’economia all’IT e perciò è inevitabile che in un periodo di recessione come questo l’IT ne risenta moltissimo.
È possibile ovviamente che tutto questo cambi rapidamente, serve solo la volontà di farlo, la volontà di chi può e chi governa, ma la strada che si è intrapresa non è affatto rapida ed i risultati a cui ci porterà sono del tutto incerti. Per realizzare un rapido cambiamento ci vorrebbe un cambio di mentalità, la consapevolezza che l’automazione dei servizi e la creazione di infrastrutture per il supporto all’informazione è vitale per l’economia di un paese annoverato nel G8.
Personalmente sono scettico sulle possibilità che un giovane trentenne veda, in tempo utile per poter dare una svolta alla sua vita e realizzare le sue giuste aspirazioni, quella che può essere considerata una rivoluzione del modo di fare e di pensare in Italia, ma mai dire mai.
Presto o tardi il concetto di Roi e la meritocrazia si faranno strada anche nell’amministrazione del nostro Paese ed allora le cose cambieranno, ma fino a quel momento le cose per chi ha deciso di continuare a vivere qui stanno così, o almeno è certo che lo saranno per i prossimi 4 anni, e finché si continuerà a pensarla ognuno a modo suo, coltivando i propri interessi, divisi negli intenti e nelle azioni, ogni sforzo teso a cambiare le cose è vano, meglio dare un senso a quello che si fa giocando come in wargames .
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