Facebook viene accusato di non riuscire a gestire al meglio la pubblicità, di non sapere in realtà come monetizzare il suo enorme seguito, accuse che ora trovano sponda in uno scandalicchio dai contorni piuttosto inquietanti che sta travolgendo il più gettonato dei social network. “Alcuni utenti di Facebook sono sobbalzati nel rilevare una nuova caratteristica che traccia la loro attività al di fuori del sito e la rende nota ai loro amici”, apre sull’argomento il Wall Street Journal , evidenziando il possibile rischio per la privacy dei cosiddetti beacon di Facebook.
Ad esempio, un utente che si collega a Facebook potrebbe vedere aggiornata la sezione “news feed” del sito e scoprire che un amico (anch’esso utente di Facebook, ndR) ha affittato un film online, insieme alla foto di quell’amico e a una pubblicità correlata a quel determinato servizio di affitto online. Pubblicità personalizzata, non c’è dubbio, ma per molti anche invasiva al limite dell’illegalità .
Si è immediatamente scatenata la polemica , concretizzata in una campagna da parte di MoveOn.org , che a seguito della vicenda ha inserito sul suo sito a caratteri cubitali il link per sottoscrivere una petizione “per la protezione della privacy online”.
Facebook sembra travolto. Nella sua risposta ufficiale si afferma che il “beacon” “fa parte della nuova strategia di social advertising ” ed è semplicemente “una funzione che informa sull’attività svolta dagli altri members su siti di terze parti” mettendo gli “amici” di quei members a conoscenza di quelle attività attraverso news feed. “”Le informazioni non vengono rese pubbliche, dunque non si può parlare di invasione di privacy. Inoltre, viene offerto all’utente più di un modo per scegliere di non condividere tali informazioni”, sostiene il portalone.
Una difesa che però sembra debole, almeno ad Adam Green, portavoce di MoveOn.org , che ribatte con disinvoltura: “Se Facebook sostiene che condividere informazioni private con centinaia di migliaia di amici di qualcuno sia diverso dal rendere quelle informazioni pubbliche , bene, ciò dimostra quanto sia fragile e attaccabile la sua tesi”. “L’intera utenza di Facebook è scandalizzata nell’aver appreso che libri, film e regali che acquistano privatamente vengano visualizzati pubblicamente senza permesso – ed è ora che Facebook ponga rimedio a questa gigantesca falla nella privacy”, ha tuonato.
Ad alimentare il clima di tensione attorno al sito americano, anche l’assenza di una procedura generale di opt-out per gli utenti. Questi, per delimitare l’invasione del sistema di advertising, devono negare i permessi uno per uno, per ciascun sito esterno che visitano, il che rende il tutto piuttosto frustrante.
Chris Kelly, chief privacy officer di Facebook, ha riferito al quotidiano che l’azienda è trasparente nel comunicare cosa stia tracciando: “Quando un utente visita un sito esterno e completa la sua azione, come ad esempio acquistare un biglietto, viene visualizzato un box in un angolo che informa circa il successivo evento, costituito dall’invio a Facebook dei dati di quella transazione. L’utente deve solo cliccare sul testo che dice no, grazie . Se l’utente non lo fa, quando visiterà di nuovo Facebook questo chiederà il permesso di mostrare le informazioni agli amici . Non accettando, l’informazione non viene inviata”.
Quale che sia la consistenza dei consensi o dei dinieghi, sulla questione privacy purtroppo vi è più di qualche precedente legato a Facebook. Non deve sorprendere tuttavia che l’acume, ogni volta più sottile, sfruttato a proprio vantaggio dai grandi player dell’era del Web 2.0, nonostante le proteste invada in modo sempre più pervicace le dinamiche della privacy. Il business è troppo goloso e l’unica arma è quella di sempre: niente “leggerezze”, nessuna negligenza nel cliccare pur di arrivare “alla fine della procedura” e, come raccomandato in altre occasioni, tenere gli occhi ben aperti sempre più spalancati.
Marco Valerio Principato