L’allarme riguardo al consumismo è una minaccia ricorrente che torna saltuariamente a farsi sentire salvo poi cadere nel consueto oblio in attesa del prossimo studio che riaccenda i riflettori sul problema dell’inquinamento e della necessità di elaborare modalità efficaci e condivise su scala mondiale per lo smaltimento dei rifiuti elettronici. Nell’era dell’elettronica di consumo e del computing ubiquo, l’insidia si è gradualmente trasformata in emergenza e l’ ultimo report in materia disegna un presente complicato e un futuro molto nebuloso. Basta pensare che nel 2012 sono stati prodotti 48,9 milioni di tonnellate di e-waste , una valanga di dispositivi inutilizzati destinata a dilatarsi costantemente in maniera esponenziale fino a superare i 65 milioni di tonnellate previsti nel 2017 con una crescita del 33 per cento. Numeri che debbono far riflettere e che soprattutto dovrebbero contenere gli interessi di parte per trovare, velocemente, una soluzione che non punisca sempre gli stessi (cioè i paesi più poveri e deboli in chiave internazionale, ovvero quelli africani, asiatici e l’America Latina), che già accolgono immense masse di device abbandonati, talvolta in buone condizioni, da società risucchiate da cima a fondo dal consumismo di massa (Europa e USA in testa).
La mappa interattiva realizzata dal Solving the E-Waste Problem Iniziative – una partnership fra istituzioni internazionali, governi e università ideata per diffondere l’esigenza di una maggiore consapevolezza del problema , affrontabile solo con politiche gestionali sostenibili capaci di abbattere le differenze legislative riscontrabili nei 184 paesi analizzati – offre un quadro a tinte fosche che include anche diverse sorprese.
Se USA (9,4 milioni di tonnellate) e Cina (7,3 milioni di tonnellate) sono infatti i maggiori produttori di rifiuti elettronici su base assoluta, calcolando il rapporto pro capite si scopre che il paese meno avvezzo alla questione è il Qatar, dove in media ogni cittadino produce 63 Kg di rifiuti hi-tech, seguito da altre nazioni considerate spesso un modello vincente e da imitare come il Lussemburgo (49 Kg a testa), Singapore (36 Kg), Norvegia (33 Kg) e Hong Kong (30 Kg). Tornando ai due giganti (in attesa dell’India), va rilevato che se al momento gli Stati Uniti mostrano una produzione pro capite sei volte maggiore dei cinesi (29,8 Kg contro 5,4 Kg), il rapporto è destinato a modificarsi e, sul medio-lungo periodo a capovolgersi, in virtù della crescita del mercato cinese, dove solo negli ultimi dodici mesi sono stati immessi 11 milioni di tonnellate di dispositivi – smartphone, tablet, tv, pc, frigoriferi, monitor, giocattoli e qualsiasi altro apparecchio dotato di batteria e cavo – destinati a finire nel cestino entro i prossimi anni.
Utile per scoprire e valutare le norme con le quali i vari paesi gestiscono il problema, la mappa mostra anche il viaggio intorno al mondo dei carichi di e-waste, con gli smartphone destinati nella maggioranza dei casi al Sud America e ai paesi caraibici, e con i computer diretti verso l’Asia e Medio Oriente, con Hong Kong, Libano ed Emirati Arabi Uniti in cima alle destinazioni.
I più bassi volumi di vendite di molti di questi paesi, uniti a strutture ancora ancora poco sviluppate, favorisce il riutilizzo e riciclaggio di oltre la metà dei rifiuti esportati (il 56 per cento), anche se solo alcune componenti trovano nuova vita e meno del 10 per cento dei dispositivi vengono riutilizzati ex novo. Sul totale dei 49 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici prodotti nel corso del 2012, con una media di circa 7 Kg per ognuno dei quasi sette miliardi di persone presenti sulla Terra (inclusi, quindi, bambini, anziani e indigenti che non hanno probabilmente mai avuto l’opportunità di avere uno smartphone in mano), l’ Italia ha prodotto 1,1 tonnellate di rifiuti con una media pro capite pari a 17,8 Kg .
Cifre impressionanti ma non complete, che descrivono solo parzialmente la gravità del problema. Le diverse abitudini adottate nei vari paesi in quanto a codici commerciali, classificazioni ed etichettature elettroniche utilizzate non consentono di cogliere in pieno la portata del fenomeno, tanto che per superare questi limiti il rapporto di StEP sottolinea la necessità di creare misure uniformi che permettano di migliorare il monitoraggio, passaggio basilare per tracciare i rifiuti hi-tech e avere così un quadro aggiornato e ancora più affidabile.
Alessio Caprodossi