“Sono convinto che entro i prossimi 12 mesi quasi tutti gli editori si faranno pagare per i loro contenuti”. Questa profezia non appare inusuale , soprattutto nell’attuale panorama del giornalismo, tenuto sotto scacco dalla crisi di lettori e investitori pubblicitari. A dichiararla con una certa dose di sicurezza è stato il redattore del Financial Times , Lionel Barber che ha così rimesso a fuoco quella che lui stesso ha definito “una delle sfide principali da affrontare”. Una sfida che sembra sempre più decisiva agli occhi degli editori dopo il lancio del guanto verso siti web, blog ed aggregatori di notizie.
Barber ha ostentato un’aria serena, spiegando come il Financial Times fosse autentico pioniere, dando ai suoi lettori la possibilità di leggere un numero limitato di articoli prima di richiedere l’abbonamento. Eppure, qualche interrogativo pare averlo assalito durante un recente discorso tenuto alla British Academy: “come funzionino questi modelli di pagamento online rimane ancora incerto, così come i guadagni che possono generare”.
Si tratterebbe di rivedere, dunque, un modello di business che già Rupert Murdoch definì difettoso, destinato a perdere: i contenuti della rete spariranno presto così come sono attualmente, lasciando spazio ad abbonamenti old style . Il New York Times ha, a proposito, recentemente chiesto ai suoi fedeli lettori se fossero stati intenzionati a pagare tra i 2,5 e i 5 dollari per accedere a nytimes.com . Barber potrebbe essere interessato a conoscere l’opinione degli oltre 1,3 milioni di lettori (non paganti) del suo giornale, davanti alla posizione di appena 110mila che hanno sottoscritto un abbonamento.
Gran parte della colpa è stata addossata ai nuovi protagonisti dell’informazione digitale, a partire dai grandi aggregatori di news come quello di Google . L’azienda di Brin e Page, in sostanza, avrebbe preso parte ad una campagna bellica contro gli editori tradizionali, succhiandone il sangue come un vampiro come ha detto il CEO di Dow Jones Les Hinton. “Il concetto che l’informazione vuole essere libera è assurdo nel momento in cui il meccanismo intorno si arricchisce e agli autori spettano gli avanzi”: sul sito di Columbia Journalism Review , il giornalista Peter Osnos ha cercato di spiegare i motivi per cui Google News dovesse pagare il conto.
In un recente post sul blog ufficiale, Josh Cohen, product manager di Google, ha risposto con fermezza alle tante accuse ricevute, a cominciare da quelle ultime di Associated Press che ha proposto di includere negli articoli online dei tag descrittivi che identificassero autore, editore e altre informazioni relative. “Milioni di webmaster in tutto il mondo – ha scritto Cohen – compresi gli editori, utilizzano uno standard tecnico noto come Robots Exclusion Protocol (REP) per dire ai motori di ricerca se il loro sito possa essere o meno indicizzato”. Il post spiega con precisione come chiudere le porte in faccia al search engine, sottolineando un altro dato interessante.
“Oggi – ha continuato Cohen – più di 25mila editori nel mondo rendono disponibili i propri contenuti a Google News e altri motori di ricerca online. Lo fanno semplicemente perché vogliono essere trovati e letti e Google indirizza più di un miliardo di visite verso i siti d’informazione, ogni giorno”. E questo non alleggerisce di certo le tasche dei magnati delle news: “Queste visite offrono agli editori un’opportunità di business e la possibilità di agganciare il lettore con contenuti avvincenti, ma anche di fare soldi con la pubblicità oppure offrire abbonamenti online”.
Mauro Vecchio