Roma – Senza alcuna sorpresa ho appreso che l’Associazione Stampa Romana ha deciso di denunciare il sito Caltanet.it, dell’editore Caltagirone, in quanto non registrato in tribunale, chiedendone contestualmente il sequestro per il reato di stampa clandestina.
La nuova fase della guerra delle istituzioni della corporazione giornalistica contro il sito di Caltagirone, che i lettori di Punto Informatico conoscono come Copianet , in sé è inevitabile. Da tempo la Federazione Nazionale della Stampa, cioè il sindacato dei giornalisti, ha denunciato il fatto che i redattori di quel sito, non registrato in tribunale, sono assunti con contratto da metalmeccanico anziché con regolare contratto giornalistico. La nuova denuncia dell’Associazione Stampa Romana non è che una banale formalizzazione di queste accuse.
Non voglio entrare nella interessante ma tutto sommato trita polemica sulle ingiustificabili barriere all’ingresso nella professione giornalistica, sul ruolo debordante acquisito dall’Ordine dei Giornalisti o sulla sostanziale inutilità della selezione dei giornalisti e dunque del contratto di categoria. Sono questioni che tutti conoscono e che appartengono ad una vecchia piccola Italia che ci auguriamo presto scompaia.
Al di fuori di tutto questo emerge invece la sorprendente vitalità di un sistema chiuso di potere che associa editori e professionismo giornalistico, un sistema che da un lato invoca (e ottiene) la scandalosa legge sull’editoria per distribuire denaro dei contribuenti ad alcuni specifici colossi del settore e dall’altro mette in croce chi è nel giro ma non sta ai patti, rischiando così di far saltare del tutto la già traballante ma redditizia infrastruttura dei privilegi corporativi.
Poiché nelle parole dei sindacati di settore la battaglia contro Caltagirone nasce dalla necessità di tutelare redattori ai quali non vengono riconosciuti i diritti civili aumentati del contratto di categoria, è inevitabile chiedersi quanti oggi in Italia svolgano attività giornalistica online a tutti gli effetti senza il benestare, i bollini e i diritti della corporazione. Che vuol dire, oggi e in rete, “clandestina”?
La domanda non è retorica. Quanti sono i siti che producono informazione? Ci sono siti che possono affermare di non fornire informazioni al proprio pubblico? Quanti quelli che pubblicano materiali con periodicità? Quanti gli spazi di informazione che siti non sono? Quante, ancora, le realtà internet che fanno informazione in modo nuovo, trasformando i lettori in attivi contributori di informazione? E quanti di questi sono registrati in Tribunale? Quanti si dotano di contratti giornalistici? Quanti lavorano – orrore! – persino conservando un certo grado di anonimato?
Perché tutto questo non viene perseguito? Perché non si chiede il sequestro dell’intera rete italiana appellandosi a quel che si vuole, ce n’è per tutti, alla legge sull’editoria oppure a quella sulla stampa o a decenni di sentenze di Corti di diverso livello? Perché non si accusa tutta intera l’informazione online senza bollini di essere clandestina?
Non so se la risposta è nel poco interesse suscitato dai sitarelli destinati a non reclamare cremose fette di torta.
Ma è chiaro che, per chi è dentro, il club dei golosi ha regole ferree. Sgarrare è pericoloso.