I brevetti che a parere di Eolas avrebbero mutato il Web “da un mondo primitivo e statico all’ambiente fluido e interattivo di oggi” non sono validi: lo ha ribadito la corte d’appello che ha analizzato il caso che opponeva la famigerata patent-holding company a colossi della Rete quali Google e Amazon.
Eolas, capitanata da un docente della University of California di San Francisco, da anni insiste nel rivendicare la paternità del Web come lo conosciamo oggi . Tutto scaturisce da un sistema dedicato ai ginecologi, per analizzare online le immagini degli embrioni. Una invenzione del 1994, brevettata nel 1998, a cui si è aggiunto un secondo titolo nel 2009: entrambi i brevetti, a parere di Eolas, descrivono in sostanza il meccanismo dei plugin che girano nella pagine web e dell’incapsulamento di contenuti attinti al Web in qualsiasi applicazione. In sostanza, il Web interattivo.
Eolas, con le proprie rivendicazioni, ha piegato attori del calibro di Microsoft, che ha ceduto ad un accordo di licenza che ha previsto delle modifiche ad Internet Explorer e che è valso ad Eolas oltre 100 milioni di dollari. Nonostante l’ intervento del W3C , Eolas non ha vacillato nella sua scalata al Web: nel 2009 ha coinvolto in un processo 23 aziende, attori dell’IT e non solo, fra cui Yahoo!, Google, Amazon, eBay, Texas Instruments, Oracle, Adobe e Apple. Tutti, ad eccezione di Google, Amazon e la catena di grandi magazzini JC Penney hanno raggiunto con Eolas un accordo stragiudiziale.
Le tre aziende hanno avuto successo nel dimostrare l’inconsistenza delle rivendicazioni dell’agguerrita patent-holding company : forse per merito dell’ intervento di Web Tim Berners-Lee, da tempo schierato contro la brevettabilità delle tecnologia del Web, lo scorso anno la corte del Texas scelta da Eolas Technologies proprio per l’orientamento favorevole alla difesa della proprietà intellettuale aveva decretato la non validità dei due brevetti imbracciati da Eolas.
Il processo d’appello intentato da Eolas non ha sortito l’effetto desiderato: il giudice ha stabilito che la sentenza precedente sia da ritenersi valida, e che Eolas non può avanzare alcun tipo di rivendicazione , né imporre degli accordi di licenza che suonavano come pedaggi per chiunque si trovasse ad operare sul Web.
Google ha accolto con favore la decisione della corte d’appello. Eolas rimane laconica sulla pagina dedicata alle notizie del proprio sito istituzionale, pagina che, ferma ai successi degli accordi di licenza stipulati fino al 2011, ne rivela con nitidezza la natura di patent troll.
Gaia Bottà