È una Sentenza che, in poche ore, ha fatto il giro dell’intera Europa quella con la quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ridimensionato gli appetiti delle major dell’audiovisivo e delle società di intermediazione dei diritti come l’italica SIAE, in materia di equo compenso. I Giudici di Lussemburgo, infatti, hanno messo nero su bianco un principio che, in realtà, appariva ovvio a tanti, ma che i Governi di molti Paesi – complice un’incessante ed infaticabile attività di lobbying da parte dell’industria dei titolari dei diritti – negli ultimi anni hanno, deliberatamente, scelto di ignorare: l’equo compenso per copia privata deve necessariamente essere ancorato all’effettivo utilizzo – ancorché identificato solo su base presuntiva – del supporto o del dispositivo per la realizzazione di una copia privata.
La semplice idoneità di una tipologia di supporto o dispositivo alla registrazione di una copia privata così come la sua capacità di registrazione non possono rappresentare – e la Corte di Giustizia lo dice senza reticenze ed ambiguità – il presupposto impositivo per l’obbligo di pagamento dell’equo compenso per copia privata.
“L’art. 5(2)(b) della Direttiva 2001/29 deve essere interpretato – scrivono i giudici – nel senso che è necessario un rapporto tra l’applicazione dell’equo compenso per copia privata in relazione ad un dispositivo o supporto ed il suo utilizzo per l’esecuzione di una copia privata”. Aggiunge, inoltre, la Corte di Giustizia – dando così inequivocabilmente ragione a quanti, anche in Italia, avevano sostenuto tale argomento, già all’indomani dell’approvazione del famigerato Decreto Bondi – che “conseguentemente, l’indiscriminata applicazione dell’equo compenso, in particolare, in relazione a dispositivi o supporti distribuiti a soggetti diversi dai consumatori e evidentemente riservati ad usi diversi dall’effettuazione di copie private, è incompatibile con la disciplina europea contenuta nella Direttiva 2001/29”.
Impossibile essere più chiari di così.
La Corte di Giustizia ha fornito la propria interpretazione della disciplina europea della materia a margine di un giudizio tutto spagnolo pendente tra la SGAE – cugina spagnola della SIAE – e la Padawan SL, società di diritto spagnolo operante nel mercato della commercializzazione di supporti di registrazione. Ma, evidentemente, il principio sancito dalla Corte entra a far parte dell’Ordinamento europeo ed è, pertanto, destinato a spiegare i suoi effetti negli Ordinamenti di tutti i Paesi membri.
Ogni norma di legge o regolamento, italiano, francese o, piuttosto tedesco, in materia di equo compenso incompatibile con la disciplina europea della materia, come interpretata dalla Corte di Giustizia UE nella Sentenza del 21 ottobre scorso, dovrà, semplicemente, essere disapplicata dai giudici nazionali senza bisogno di tornare a Lussemburgo a chiedere una nuova decisione della Corte. Proprio per questo gli effetti della recente pronuncia della Corte sono dirompenti e valgono centinaia di milioni di euro in tutta Europa, centinaia di milioni di euro sin qui incassati a titolo di equo compenso, indebitamente, dalle società di intermediazione dei diritti e redistribuiti – in modo più o meno equo – tra i titolari dei diritti.
Si tratta di somme che alla stregua dell’ordinamento europeo non avrebbero mai dovuto essere neppure richieste ai produttori, importatori e distributori di supporti e dispositivi né riaddebitate ai consumatori finali e che, invece, l’ingordigia delle major dell’audiovisivo e delle società di intermediazione dei diritti, assieme all’incapacità di molti Governi – tra i quali il nostro – di mantenere la necessaria equidistanza tra i titolari dei contrapposti interessi, hanno fatto sì che venissero dragate dall’industria tecnologia e dai consumatori di dispositivi e supporti, a tutto vantaggio dell’industria audiovisiva che si è, così, ritrovata a beneficiare di questo straordinario e non dovuto sussidio di Stato.
Ed ora cosa accadrà o, almeno, cosa dovrebbe accadere?
Guardiamo, per il momento, alle cose di casa nostra.
L’ art. 71 septies della legge sul diritto d’autore, prevede che il compenso sia dovuto esclusivamente in relazione a apparecchi o supporti “destinati” alla registrazione di copie private. La nozione di “destinazione” sintetizza – sebbene con una certa approssimazione – il concetto caro ai Giudici della Corte di Giustizia, secondo il quale l’equo compenso può essere preteso solo laddove il supporto o il dispositivo sia effettivamente destinato – e non solo tecnicamente idoneo – alla effettuazione di copie private.
Quello di “destinazione” è dunque un concetto di natura tecnico-commerciale che per poter essere apprezzato richiede una valutazione relativa al mercato ed alle abitudini di uso e consumo degli utenti di ciascuna tipologia di dispositivo o supporto.
Come ricorderanno i lettori di Punto Informatico , tuttavia, il Ministro Bondi, con il suo Decreto del 30 dicembre 2009, ha esteso l’obbligo di pagamento dell’equo compenso ad una gamma di dispositivi e supporti solo tecnicamente “idonei”, “capaci” o, magari “dedicati” alla effettuazione di copie private, travalicando manifestamente il limite imposto dalla disciplina nazionale e da quella europea e, soprattutto, svuotando completamente di significato il concetto di “destinazione”.
È accaduto così che, nel nostro Paese, siano finiti con l’essere assoggettati all’obbligo di pagamento dell’equo compenso supporti e dispositivi venduti a società e professionisti e, pertanto, “non destinati” ad essere – neppure su base presuntiva – utilizzati per l’effettuazione di copie private o, piuttosto, i telefoni cellulari la cui destinazione primaria non è, certamente, quella di consentire l’effettuazione di copie private benché, naturalmente, taluni dispositivi di telefonia siano idonei, anche, a tal fine.
In forza delle disposizioni contenute nel Decreto Bondi, la SIAE, per conto dei titolari dei diritti, ha già incassato, dall’inizio dell’anno, decine di milioni di euro dei quali, una buona percentuale, a fronte della commercializzazione di supporti o apparecchi “non destinati”, ma semplicemente idonei, alla registrazione di copie private.
Si tratta di somme che, da oggi, non possono più evidentemente essere pretese e che, laddove già versate, devono essere restituite.
A seguito della Sentenza resa dalla Corte di Giustizia – almeno sotto il profilo dell’ambito di operatività della disciplina sull’equo compenso – è divenuto persino inutile attendere che si pronunci il TAR Lazio, dinanzi al quale un fronte ampio ed eterogeneo composto da società di telecomunicazione, industria dei dispositivi e dei supporti e consumatori aveva contestato la legittimità del Decreto Bondi.
Già domani mattina i giudici italiani ai quali la SIAE dovesse rivolgersi per ottenere il pagamento dell’equo compenso in relazione a supporti o dispositivi “non destinati” ad essere utilizzati – per ragioni di carattere commerciale o per la qualità degli acquirenti – per l’effettuazione di copie private, dovranno semplicemente respingere al mittente la richiesta, disapplicando le previsioni contenute nel Regolamento sull’equo compenso in quanto incompatibili con la disciplina europea della materia.
È una di quelle occasioni nelle quali i Giudici della Corte di Lussemburgo hanno reso giustizia prima e più efficacemente del giudice nazionale.
È ovvio peraltro che ora un ruolo importante spetta all’industria del settore ed alle associazioni dei consumatori. L’industria dei dispositivi e dei supporti dovrà avere abbastanza coraggio da rifiutare il pagamento di quanto il Ministro Bondi ha illegittimamente stabilito che venga pagato a titolo di equo compenso e non cedere alla facile tentazione di pagare comunque, forte del fatto che, tanto, le somme dovute a titolo di equo compenso potranno essere riaddebitate, a valle, sui consumatori finali. Alle associazioni dei consumatori, invece, spetterà il compito di vigilare perché non vengano riaddebitati a valle importi che l’industria ben potrebbe, oggi, rifiutarsi di pagare a monte.
La parola d’ordine, da oggi, diviene non pagare l’equo compenso laddove non dovuto ovvero laddove il supporto o il dispositivo non sia destinato ad essere utilizzato per l’effettuazione di una copia privata.
Non più, dunque, onerose e complicate procedure per l’ottenimento – peraltro in una percentuale modesta di casi – di un rimborso dalla SIAE ma, più semplicemente, la commercializzazione del supporto o del dispositivo senza versare alcun balzello.
C’è poi – e nei prossimi giorni occorrerà affrontarla – la questione degli importi sin qui versati a fronte di una disciplina nazionale palesemente illegittima. È giusto che tali somme rimangano all’industria audiovisiva ed alle società di intermediazione dei diritti?
Probabilmente no, anche in ragione del fatto che l’illegittimità del decreto Bondi è stata tempestivamente denunziata da tutti e che si è, a lungo e invano, chiesto al Ministro Bondi di disporre una moratoria sull’entrata in vigore della nuova disciplina, attendendo, almeno, la decisione dei giudici.
Chi ha peccato di avidità ed ingordigia dovrebbe oggi essere chiamato a mettere mano al portafoglio e restituire quanto indebitamente incassato.
Siamo solo all’inizio di una nuova puntata dell’interminabile epopea della disciplina sull’equo compenso.
Questa volta, però, le frecce più pungenti sembrano esser nella faretra dell’industria dei dispositivi e dei supporti ed in quella dei consumatori.
A colpi di freccia, probabilmente, un buon Robin Hood, nei prossimi mesi, potrebbe riuscire a bucare i sacchi di monete d’oro dell’industria audiovisiva e della SIAE, facendo cadere, per il 2010, un importo che oscilla tra i 20 ed i 30 milioni di euro sugli 80 o 90 che la SIAE, a fine anno, avrà incassato a titolo di equo compenso per copia privata.
Non è infatti certamente inferiore la somma che ogni anno il Decreto Bondi impone di versare a fronte della commercializzazione di supporti o dispositivi non destinati all’effettuazione della copia privata.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it