I giudici hanno già accertato che il sedicente investitore Paul D. Ceglia non possiede l’84 per cento delle quote di Facebook, che aveva rivendicato attraverso un roboante caso legale . Resta da decidere della sua responsabilità nella falsificazione delle prove che aveva presentato a proprio favore, per cui era stato arrestato nel 2012. Ma Facebook non dimentica, e chiede di nuovo giustizia.
Il fondatore del social network Mark Zuckerberg ha ora sporto denuncia nei confronti di un manipolo di avvocati che hanno assistito Ceglia negli scorsi anni, anche dopo gli avvertimenti dello studio legale Kasowitz, Benson, Torres & Friedman, che per primo ha avuto il sentore delle losche operazioni di Ceglia: Facebook chiama in causa studi legali che operano su scala internazionale come DLA Piper, gli specialisti in class action di Milberg LLC, oltre ad una decina di altri soggetti. Sarebbero tutti responsabili, accusa Zuckerberg, di aver supportato anche mediaticamente un caso che “sapevano o avrebbero dovuto sapere che consisteva in una truffa”.
Prima che gli studi legali iniziassero ad abbandonare Ceglia alle proprie rivendicazioni, sorvolando sulle motivazioni della scelta, il caso sarebbe rimbalzato fra alcuni dei loro rappresentanti, con la promessa di un esito simile a quello ottenuto dal caso Winklevoss , che ha assicurato ai gemelli e ai loro avvocati un accordo milionario . Facebook li accusa dunque di aver contribuito alla causa di Ceglia pur essendo a conoscenza del fatto che l’imprenditore tentasse di sostenere “una storia non plausibile” basandosi su “documenti falsificati”.
Zuckerberg ha chiesto al tribunale di New York danni punitivi e una somma imprecisata che dovrebbe compensare il social network delle spese legali per il caso Ceglia. I legali di DLA Piper parlano ora di una mossa intimidatoria da parte di Facebook, che vorrebbe scoraggiare gli avvocati dal sostenere accuse nei suoi confronti.
Gaia Bottà