C’è qualcosa di profondo nella polemica esplosa in queste ore dopo che Facebook ha bloccato alcuni influenti account legati al movimento CasaPound. Il caso è infatti una perfetta cartina di tornasole rispetto alle troppe volte in cui ai big della Rete si è contestato di aver troppo potere, per poi mettergli altro potere in mano e toglierlo dalle proprie responsabilità.
Fermi tutti, quindi. Sta succedendo qualcosa di grave e, mentre lo temiamo con sempre maggior ardore, lo stiamo provocando con sempre maggior incisività.
CasaPound vs Facebook: il caso
Da poche ore Facebook avrebbe bloccato una serie di account legati ad alti esponenti di CasaPound. Come sempre Facebook non offre motivazioni specifiche per quanto deciso dai propri moderatori: si limita a rivalutare la situazione nel caso in cui ne venga fatta richiesta, calibra le regole a cui i moderatori debbono attenersi, ma tende a non restituire spiegazioni puntuali per non dover incorrere in impossibili discussioni sul singolo caso. Rendere meno trasparenti le decisioni rende però il tutto anche meno comprensibile e passabile di critiche, così come successo in questo caso dove la decisione è stata mal digerita dai “follower” del movimento.
Account segnalati? Probabile. Quella che potrebbe sembrare una rappresaglia contro CasaPound potrebbe invece essere una sommatoria di casi scatenata dalla segnalazione di qualcuno poco propenso a leggere ancora contenuti o revisionismi considerati contrari alla realtà. Scaramucce non nuove in ambito social, ove una simile azione di disturbo potrebbe essere facilitata dai toni accesi utilizzati da CasaPound nei giorni delle proteste di Torre Maura. Ma nel contesto di una discussione fortemente polarizzata, con posizioni contrastanti ed una dialettica impossibile, ecco che anche il teorema contrario prende forma:
È chiara la presenza di un disegno ben preciso che mira a cancellare le voci dissonanti rispetto alla narrazione dominante.
da Il Primato Nazionale
L’elenco degli account bloccati è disponibile sul medesimo articolo:
Gianluca Iannone (presidente di CasaPound Italia), Andrea Bonazza (responsabile Cpi e consigliere comunale a Bolzano), Maurizio Ghizzi (consigliere Cpi a Bolzano), Emmanuela Florino (portavoce di Cpi Napoli), Carlotta Chiaraluce (portavoce di Cpi Ostia), Roberto Acuto (responsabile Cpi Napoli), Giorgio Ferretti (candidato Cpi ad Ascoli Piceno), Mario Eufemi (candidato Cpi a Nettuno), Fernando Incitti (responsabile di Frosinone ed ex candidato sindaco), Fabio Barsanti (consigliere comunale Cpi Lucca).
La giacchetta di Facebook
Facebook è dunque accusato di dar voce ad una non meglio precisata “narrazione dominante” che soffocherebbe le minoranze attraverso la censura, a maggior ragione se a poche ore di distanza dai problemi agli account social di Caio Giulio Cesare Mussolini (candidato per Fratelli d’Italia alle prossime elezioni Europee). Va però sottolineato come più di una volta Facebook sia stato accusato dell’esatto contrario, ossia di dar troppa voce a qualsivoglia minoranza, soffocando le ragioni del vero nel nome di una eccessiva libertà di espressione.
Facebook ormai non è più solo una piattaforma privata, visto che la sua valenza politica e sociale a livello globale è ampiamente riconosciuta da studi e persino da sentenze; quindi, come tale, non può più arbitrariamente decidere – fatte salve conclamate e motivate violazioni della propria policy – chi possa essere presente sulle proprie pagine
Queste parole, in questo caso utili a difendere le ragioni della destra, potrebbero tranquillamente essere usate per difendere le ragioni della sinistra o di qualsivoglia movimento che si ritrovasse a dover fare i conti con la “censura” del social network. La realtà, però, è che questa censura è stata poco alla volta potenziata proprio per rispondere a quanti accusano Facebook di non ridurre il linguaggio violento, non combattere le fake news, non censurare le oscenità, non limitare il terrorismo, non frenare il bullismo e via discorrendo.
Ogni singolo giorno si tira la giacchetta di Facebook da una parte o dall’altra, nell’auspicio che le nuove sfumature delle regole del social network possano penalizzare le argomentazioni altrui e salvare le proprie. Facebook, nella scomoda posizione dell’arbitro che in realtà vorrebbe mai fischiare (oscenità e toni forti sono sicuramente ben più coinvolgenti che non i “Buongiornissimo” e simili), si trova così a dover mettere continuamente una pezza su quanto accade, nella consapevolezza per cui – una volta passati pochi giorni e magari un’altra tornata elettorale – il tema che andrà ad imporsi sarà un altro.
La giacchetta che tiriamo a Facebook per questioni di libertà di espressione è la medesima giacchetta che tiriamo per il copyright, per la libertà di espressione in Cina o Venezuela, per la lotta al terrorismo di Al Qaeda, per i filtri contro le fake news e altro ancora. Ecco perché in questi momenti più che partecipare allo scontro schierandoci da una parte o dall’altra occorrerebbe, in silenzio, indossare per un attimo la giacchetta di Facebook e capire cosa occorra fare davvero, come individuare un metodo, come organizzarsi per far sì che le decisioni possano essere efficaci e trasparenti, proporzionate e non strumentalizzabili.
Sicuramente quel che non serve è un nuovo Minculpop. Né giova ad alcuno che ad interpretarne il ruolo sia un social network da oltre un miliardo di persone. Ma conoscere il social network significa anche evitare di attaccarlo in qualsiasi occasione pur di strumentalizzarne le regole. Perché quella giacchetta che tutti tirano, è la stessa giacchetta in cui tutti si specchiano. E c’è da spaventarsi quando una classe politica dalla quale si dovrebbe auspicare una miglior regolamentazione dei social network finisce per esaurire tutta la propria attività proprio sui social network, per poi ritrovarsi a criticare asetticamente i social network e fare tutto ciò pur di tornare sui social network.
Di fronte al corto circuito in atto non c’è da sperare in soluzioni rapide, né positive. Ma c’è da riflettere.